Adolescence non sconvolge ( forse)

L’articolo “Adolescence non sconvolge” di Laurie Penny, pubblicato su Internazionale, analizza la serie TV Adolescence di Jack Thorne, che racconta la storia di un tredicenne radicalizzato dai social network e responsabile di un omicidio a sfondo sessista. 

La giornalista sottolinea come la trama della serie, seppur drammatica, non sia affatto sorprendente, dato che la violenza misogina perpetrata da giovani uomini è un fenomeno ben noto e purtroppo diffuso, alimentato da ideologie tossiche come quella degli “incel” (celibe involontario) e da influencer misogini come Andrew Tate.

Penny critica la sorpresa e lo sdegno mostrati da politici e commentatori, evidenziando che la cultura misogina e la violenza contro donne e ragazze sono problemi noti da tempo, denunciati ripetutamente anche da attiviste senza però ricevere adeguata attenzione o interventi efficaci. 

L’autrice racconta anche la propria esperienza personale di molestie e minacce online, che riflette una realtà comune a molte donne, spesso minimizzata o ignorata dalle istituzioni.  Mette, inoltre, in luce come la radicalizzazione misogina non sia un fenomeno casuale o limitato a giovani vulnerabili, ma sia parte di un movimento organizzato e con ambizioni politiche, sostenuto da uomini adulti, inclusi quelli al potere. 

Infine critica l’atteggiamento di chi cerca di giustificare o empatizzare con gli aggressori, invece di concentrarsi su come fermare concretamente questa violenza.

 

L’articolo denuncia in breve la mancanza di volontà politica e sociale nel contrastare efficacemente l’epidemia di violenza maschile contro le donne, invitando dunque a smettere di giustificare i colpevoli e a trovare soluzioni concrete per fermare questa deriva.

La radicalizzazione misogina descritta da Laurie Penny trova eco nei casi italiani di Ilaria Sula e Sara Campanella, uccise entrambe recentemente da uomini le cui violenze riflettono dinamiche analoghe a quelle denunciate nell’articolo. Come il protagonista della serie, gli aggressori spesso assorbono online ideologie tossiche che giustificano il controllo sul corpo femminile. 

La cronaca italiana in merito mostra un “pattern” abbastanza ricorrente: uomini che reagiscono con violenza estrema al rifiuto o all’autonomia delle donne, sintomo di una crisi della mascolinità strumentalizzata.  L’autrice evidenzia in particolare come le istituzioni e i media sottovalutino questa deriva,  in  Italia, infatti , nonostante l’aumento dei femminicidi, le risposte restano spesso inefficaci. 

La minimizzazione dei rischi (“era un raptus”) o la colpevolizzazione implicita delle vittime (“perché non ha denunciato?”) riproducono gli stessi meccanismi di giustificazione descritti nell’articolo. 

Come sottolinea Penny, il problema non è la “vulnerabilità” degli aggressori, ma il sistema che legittima la loro rabbia. I casi di Ilaria e Sara dimostrano come la violenza sia strutturale, non episodica, e richieda interventi educativi e legislativi urgenti. 

L’articolo e queste storie italiane convergono nel chiedere una rottura radicale con la cultura che normalizza l’odio verso le donne . In particolare suscitano nel lettore importanti domande che invitano a riflettere sulla necessità di un impegno collettivo per contrastarlo. 

Ad esempio: come è possibile che la società e le istituzioni abbiano ignorato per anni le denunce delle donne sulla cultura misogina e la violenza online? 

O addirittura, perché la radicalizzazione maschile violenta, favorita dai social network e da figure come Andrew Tate, non è stata affrontata con misure concrete? quali strategie efficaci potrebbero fermare questa escalation di violenza e prevenire la diffusione di ideologie tossiche tra i giovani? 

Serena Cavazzini 3E

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