Un calcio al regime iraniano

Una giacca nera, il nuovo simbolo di una protesta che vuole rompere il silenzio. Una protesta iniziata da donne per altre donne che ha rapidamente coinvolto il mondo: dall’Iran all’Europa, dalle casalinghe ai calciatori.

La giacca nera come il velo che copriva “male” i capelli di Mahsa, infatti, va ad affiancare tutti quegli oggetti quotidiani simbolo della parola “Basta”:  la gruccia alzata in Argentina per la depenalizzazione dell’aborto, il cucchiaio di legno agitato dalle donne in Burkina Faso contro il presidente Compaoré o le paperelle di plastica usate come scudi contro la polizia in Tailandia.

Basta aborti non sicuri, basta dittatura sessista, basta violenza.

Col capo chino o gli occhi che guardavano in alto, durante l’inno suonato prima dell’ultima amichevole in Austria, anche i calciatori iraniani hanno detto basta. E la notizia ha destato scalpore perché a protestare questa volta erano uomini, genere privilegiato in Iran e in molti paesi a prevalenza musulmana, uomini che hanno scelto di non ignorare le difficoltà delle loro connazionali, costrette a nascondersi per colpa di un governo che strumentalizza una religione che sostiene tutt’altro.

Sì, il velo fa parte delle pratiche musulmane, ma nessuna donna dovrebbe morire perché non lo indossa correttamente. Sì, le donne hanno uno status socialmente inferiore in Iran, ma nessun Corano sostiene che siano costrette a restarvici per sempre per natura. Sì, per la religione il fine del matrimonio è procreare, ma nessun Corano promuove la morte come rimedio al rifiuto di contrarre questo matrimonio, neanche se in ballo c’è la dignità della famiglia, come nel tristissimo caso di Saman Abbas.

La colpa non è del Corano. La colpa è della cultura arretrata che molti stati si ostinano a promulgare opprimendo le libertà personali, specialmente quelle femminili. La colpa è delle famiglie che non permettono alle figlie di istruirsi e di emanciparsi. La colpa è del regime che fa trapelare solo un certo tipo di informazioni, quelle opprimenti e discriminatorie. La colpa è di chi ha smesso di lottare perché tanto “non cambierà mai nulla”, perché sì questa volta cambierà.

In un’Europa in cui sembrano minacciati i diritti acquisiti grazie alle rivolte femministe del ventesimo secolo, la squadra iraniana ha lanciato un messaggio: non ci sono un luogo o un momento sbagliati per protestare.

In particolare l’attaccante Sardar Azmoun ha provato a rompere la barriera del silenzio a cui lui e i suoi compagni sono costretti durante la stagione della Nazionale, postando commenti sui social  per dare voce alle tante vittime dimenticate (oltre alle recentemente note Mahsa Amini e Hadis Najafi), alle donne iraniane che scendono nelle loro piazze ogni giorno legandosi i capelli che non possono mostrare e a quelle europee che se li tagliano per solidarietà. Sfortunatamente gli autori sono stati costretti a rimuovere poco dopo i loro stessi commenti, ma il messaggio è rimasto ugualmente.

Allo stesso modo ha toccato i cuori di tutti gli artisti l’appello del regista Asghar Farhadi: si è rivolto a tutti gli uomini e a tutte le donne di spettacolo chiedendo agli scrittori di scrivere, ai ballerini di ballare, ai cantanti di cantare, agli attori di recitare.  Niente di troppo difficile insomma, ha solo chiesto ad ognuno di fare quello che meglio sa fare per uno scopo comune: la fine di un regime oppressivo e discriminatorio nei confronti di donne che meritano di essere libere quanto quelle occidentali, pur mantenendo la loro religione e il diritto di manifestarla a piacimento.

La loro indignazione è sintomo della forza di questa protesta irrefrenabile. Più i loro sforzi vengono repressi, più viene imposto il velo, più il mondo mostra sui media donne islamiche influenti che per scelta non lo indossano. Più censurano i mezzi di comunicazione, più il mondo comunica. Più l’Iran rinchiude le donne, più il mondo protesta.

 

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