In nome della cultura

Maylis, Ulysse, Elise, Clémence, Annicia, Gwladys, Matheline, Benoît, Margot

Quando sono arrivata in Francia non sapevo scrivere tre quarti di questi nomi.

Alcuni hanno delle lettere che non si pronunciano, altri hanno un equivalente in italiano e a volte fanno ridere perché ricordano quelli dei nostri nonni anche se per loro sono attuali, altri ancora hanno origini geograficamente lontane.

In un liceo privato italiano difficilmente troverai una Ny Hasina, ma perché? Perché non siamo abituati ad avere, in una classe privata, tanti nomi stranieri quanti italiani? Non vorrei saltare a conclusioni affrettate, però viene naturale pensare che la Francia, oltre ad essere un paese oggettivamente più multietnico, sia anche più inclusivo.

Questa inclusività non intacca in nessun modo la tradizione. Seduto a fianco di Emirhan trovi senza troppi sforzi Thaddée o Clotilde e se non sono nomi tradizionali questi…

La questione delle lettere che non si pronunciano invece è un problema più legato al modo di parlare francese secondo cui si leggono praticamente la metà delle lettere scritte. La cosa interessante è che questo problema smette di essere un problema nel momento in cui si esce dall’ottica che, in tutte le regioni o stati, i nomi si pronuncino allo stesso modo.

Ad esempio, una ragazza ceca verrebbe chiamata Rakel in famiglia, Rascel a scuola e Reicel all’estero se si trascurassero le sue origini. Qui non l’ho mai visto succedere: subito dopo essersi presentati, se il nome deve essere inserito in qualche documento, si ha l’abitudine di fare lo spelling. Sembra un’ovvietà – se non vuoi che scrivano il tuo nome male digli come scriverlo – o, quanto meno, una formalità per non incorrere in errori anagrafici, invece è molto di più. È la dimostrazione pratica di come la differenza culturale sia una base e non un elemento che si è costretti a integrare per vivere civilmente.

La tendenza stessa dell’italiano medio a italianizzare i nomi delle altre culture fa un po’ ridere. A chi non è mai capitato di leggere un Justin, per esempio, su un libro di francese delle medie e ricordarselo come Giustino che sicuramente ci ispira più simpatia.

Non che cercare di conservare i nomi tradizionali o fare paragoni sia un male, ma quando assegnare a un bambino, figlio di genitori stranieri, un nome di una cultura diversa da quella del luogo di nascita significa condannarlo ad anni di “ah ma quindi sei straniero?”, “ma con questo nome da dove vieni?”, “pensavo fossi italiano”, “no ma questo è un nome da maschio”, forse qualcosa non va. Forse dobbiamo fare qualcosa in nome della cultura.

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