Tre nazioni in una

Ho provato a non immaginarmi niente. Non volevo avere aspettative, le domande la cui unica risposta erano “vedremo” bastavano. Se non mi trovo con la mia famiglia ospitante? Se i miei amici mi mancano troppo? E se non riesco a farmene di nuovi? Riuscirò a seguire le lezioni? E la lingua, la capirò? ( Amelie).

Amelie, Katrien e Rachel sono tre diciassettenni, la cui unica differenza evidente è il paese d’origine: Germania, Belgio e Repubblica Ceca. Voi direte, non è poco, parlate tutte lingue che non hanno niente in comune e siete cresciute con culture sufficientemente diverse: invece, dopo quattro mesi di inglese e parole inventate, parliamo tutte la stessa lingua, andiamo a bere le stesse cose nello stesso bar, abbiamo gli stessi problemi con il tram che non passa e le lezioni fino a tardo pomeriggio, ci guardiamo indietro e l’unico dubbio che ci resta è come ci siamo arrivate così in fretta.

La mente allora corre al ricordo del desiderio di scendere da quel treno che sembrava non giungere più a destinazione e ai nostri primi pensieri con i piedi sui binari della Gare SNCF. Amelie si era stressata così tanto pensando all’incontro con la famiglia che quando li ha visti, cartello in mano, ha pensato che tutto sarebbe andato bene; Rachel si è resa conto di quanto poco fosse servito lo studio del francese i mesi prima visto che non riusciva a comporre una frase; Katrien ha avuto la testa leggera finché non è passata davanti all’edificio che le han detto essere la sua futura scuola e allora non ha più distinto euforia e preoccupazione. Ognuna ha chiamato casa per raccontare questo stato d’animo, ognuna coi suoi tempi: la famiglia belga ha ricevuto una breve “check-up call” tre giorni dopo solo per essere sicuri che non ci fossero stati aerei precipitati o valigie perse, quella ceca una videochiamata la sera stessa per spiegare al fratellino che avrebbero mantenuto stretti i contatti e quella tedesca ha dovuto aspettare un mese perché Amelie voleva avere delle storie da raccontare. La prima cosa che Amelie ha raccontato, come Katrien, è stata: “Qui escono con gli amici troppo poco, ma non è colpa loro, è che stanno troppo a scuola”. Ce ne siamo lamentate tutte, Rachel compresa, che però invidia le vacanze distribuite nell’anno che in Repubblica ceca non hanno, essendo organizzati in modo simile all’Italia.

Allora il paragone tra stati viene spontaneo, quanto la domanda “Qual è la più grande differenza tra il tuo paese e la Francia?”. Non è sempre facile identificarne una: c’è chi non era abituata a vivere in una città venendo da un paesino belga in cui si muoveva sempre e solo in bici al posto del tram, chi ritorna sul sistema scolastico paragonandolo a una piccola università perché viene lasciato più all’autogestione, non esistono orali durante l’anno e le date di tutte le verifiche più importanti sono dichiarate a inizio trimestre, ma anche chi nota l’aspetto umano e il fatto che qui si venga cresciuti in modo differente rispetto alla Germania in cui sei totalmente dipendente dai tuoi genitori finché non dimostri di non averne più bisogno e questi non si sognerebbero più di dirti a che ora a tornare, ma neanche di difenderti con un prof.

C’è una cosa su cui però, a detta loro, i rispettivi paesi non reggono il confronto: la cultura del cibo. Per un italiano non c’è niente di strano, anzi sarei pronta a criticare la carbonara a base di creme fraiche e la pizza che sembra cartone, ma per i paesi del nord europa è una novità vedere persone sedute a tavola tutte insieme che mangiano per il gusto di mangiare e non solo per la necessità di nutrirsi, un pasto con più portate divise in piatti diversi mentre parlano della propria giornata. Oltre a questo Rachel dice che dopo aver visto quello francese vorrebbe aggiungere il mare alla Repubblica Ceca e Katrien vorrebbe continuare a usare espressioni che ha trovato buffe come “faire dodo” (fare la nanna), “maladroit” (maldestro), suggerita da Amelie, o “granola” (un tipo di biscotti) che per Rachel è stata una sorpresa visto che in ceco vuol dire crocchette per cani. 

Non sempre imparare parole nuove è divertente però: a seconda della somiglianza con la nostra lingua madre capita di trovare facili parole di alto livello e incastrarsi su quelle comuni. “Afin” (allo scopo), “Selon toi” (secondo te), “acquéreurs” (acquirenti) e “apprendre par coeur” (“imparare col cuore” anche se si impara col cervello, o forse no?) sono tra le espressioni che hanno causato più problemi alle tre, ma in realtà spesso il problema non è capire il senso di una parola tanto più tradurla perché non tutto è traducibile come ti insegnano. Ogni lingua contiene concetti che non esistendo negli altri stati non possono essere espressi in parole e te ne accorgi solo quando inizi a pensare in una lingua che non è la tua.

Imbarcarsi in un’esperienza simile comporta cambiamenti più concreti del cambio di lingua nei pensieri, anche se spesso se ne farebbe volentieri a meno: Amelie ha dovuto anticipare di un’ora la sveglia, Rachel è stata obbligata a farsi l’abbonamento dell’autobus quando prima non ne aveva quasi mai preso uno e Katrien ha iniziato a truccarsi, cosa che anche essendo una sua libera scelta continua a pensare faccia perdere troppo tempo. Ci sono invece abitudini che semplicemente non ti aspetti e ti fanno sorridere ogni volta: il fatto che paghino spesso con gli assegni, pratica in disuso più a nord, che mangino la lingua di mucca, anche se questo dipende dalle famiglie, ribaltare uno yogurt particolare come fosse un budino.

Fa ridere, le cose che notiamo a volte sono quelle con la minor importanza, quelle che impariamo provandole sono quelle che ricorderemo più di quelle lette su un libro, quelle che ci fanno sorridere sono quelle che non avremmo mai immaginato neanche di vedere o pensare, ma forse è questo che fa dire a tutte “non avrei potuto immaginarmi un viaggio così bello”.

 

Cleo Cantù

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