Foto (©www.bari.repubblica.it)
Quando, per la prima volta, arrivai a Taranto, rimasi stupito. La statale SS7 Appia Brindisi-Taranto regala nel suo tratto finale proprio quel “panorama mozzafiato” che sembra preso da un film apocalittico, quando invece la città si mostra al suo interno maestosa, giocosa, sorridente, vecchia e nuova al contempo, particolare nelle sue peculiarità.
Già da bambino avevo sentito parlare occasionalmente al telegiornale dell’Ilva, ma non avevo mai veramente capito la portata di un problema che affligge i tarantini da più di 50 anni a questa parte.
L’Ilva è gigantesca.
L’Ilva è un mostro che estende i suoi tentacoli sulla città e in particolare sul quartiere Tamburi, il più inquinato d’Europa tanto da essere definito giornalisticamente “il quartiere dei morti che camminano” avendo la più alta concentrazione di malati di leucemia per chilometro quadrato. Un colosso in tutte le sue forme, declinazioni e numeri: dodici milioni di tonnellate di acciaio prodotte ogni anno (circa metà del totale nazionale), tredicimila dipendenti, 1.500 ettari di terreno occupati. Un mostro che riesce a piegare la politica e la città intera sotto il ricatto della perdita del posto di lavoro di migliaia di dipendenti. Non sembra che sia la città a contenere l’acciaieria, quasi il contrario.
Ogni anno Taranto respira 2,7 tonnellate di ossido di carbonio e 57,7 di anidride carbonica, assieme a diossina, tetraclorodibenzodiossina, benzoapirene (una tra le sostanze più cancerogene conosciute), arsenico, piombo, idrocarburi, sostanze radioattive come il polonio, mercurio e altre cinque sostanze inquinanti, cancerogene e teratogene.
A Taranto si ha paura ad ogni respiro esalato, si ha paura persino di scoprire quel che si respira tanto che ancora si stenta a misurare i livelli di biossido di carbonio e alcune volte, purtroppo, se ne falsificano i livelli (e sappiamo bene che non sarebbe una novità), ad un costo elevatissimo in termini di salute e di ambiente; ma tanto ciò che va bene per l’Italsider va bene anche per Taranto, e per tutti noi.
Nel 2012, Ilva, Eni e Cementir (rispettivamente seconda e terza nella classifica delle industrie più inquinanti di Taranto) sono state multate per un ammontare complessivo di 172 milioni di euro dal comune, ma nonostante gli strenui appelli di alcune persone nella comunità politica, scientifica e civile questi colossi continuano a riversare tonnellate su tonnellate di sostanze velenose e potenzialmente letali nell’ambiente.
A questo punto la domanda è: perché nonostante gli 872 milioni di fatturato del 2007, l’acciaieria più grande d’Europa non si è ancora evoluta e non ha adottato procedure e strumentazioni volte alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, per altro portandosi al pari con ciò che le acciaierie di tutt’Europa hanno fatto dopo il protocollo di Kyoto?
Purtroppo la risposta è semplice e molto scontata: perché siamo in Italia, il paese dove fino a quando l’acqua non arriva alla gola di chi siede su scranni di porpora e poltrone, non ci si muove per arginare un problema evidente a tutti. Il diritto alla salute è un diritto inviolabile garantito costituzionalmente, ma alla politica e ai soldi di questo non importa molto; un governo che prima contesta la realtà e la gravità della cosa e successivamente si eclissa completamente, mettendo in secondo piano la vita, la salute, l’ambiente dei suoi cittadini.
Si pensi solamente al fatto che secondo una ricerca del Servizio di Chimica ambientale dell’Istituto per la ricerca sul cancro di Genova, si è calcolato che un bambino di Taranto in media inala tante sostanze cancerogene quante contenute in circa 2,14 sigarette al giorno, mentre, secondo l’Arpa regione Puglia, una persona che lavora nel reparto cokeria della fabbrica respira livelli di sostanze che si trovano in 305 sigarette fumate ogni giorno. Numeri da capogiro.
Il bello è che quando associazioni volontarie come Taranto Viva, Pacelink, Taranto Sociale, Comitato per Taranto e tante altre si azzardano a contestare l’evidente situazione e a mettersi contro i giganti, ecco che lo scandalo diventano proprio queste accuse e non più l’inquinamento smisurato perpetrato per decenni a scapito e a danno dei cittadini; ed è proprio qui che inizia il ricatto del licenziamento e della cassa integrazione, che diventa come una catena che tiene i tarantini saldamente legati al loro vassallo, una vera sciagura.
A Taranto ora sembrano rimaste solo due scelte: restare e rischiare la vita come un terno al lotto o andarsene e lasciare per sempre la città in cui si è nati, cresciuti, la città della squadra del cuore e in cui da sempre si è desiderato vivere.
È da un po’ di tempo che le persone hanno iniziato a non accettare più il fatto che l’unica via per crescere i propri figli e fare le attività che più si amano insieme sia andarsene. “Vada via l’Ilva” dicono. Ed effettivamente hanno ragione, perché se non si riesce a rinnovare gli impianti, superati e migliorati oramai da generazioni di innovazioni tecnologiche, questi ultimi vanno demoliti. Non è una soluzione semplicistica, ma una scelta logica e coerente con il problema effettivo. Ed è proprio grazie a queste persone se, in collaborazione con le associazioni volontarie del territorio, lentamente la verità sta venendo a galla: ed è ora che questa verità tragica aiuti a cambiare la società dopo decenni di silenzio dei mezzi di informazione e di sciagurata gestione.
Pietro Palmia Delsoldato 3F
Fonte: www.tarantoviva.it; www.tarantosociale.org; La città delle nuvole, Carlo Vulpio (Verdenero, 2009).