Il libro di cui vorrei parlare mi è stato assegnato a scuola: qualcuno può darsi l’abbia già letto, o magari accantonato in un angolo, qualcuno invece forse non l’ha mai sentito nominare.Il fatto che si tratti di una lettura scolastica non toglie niente alle pagine che hanno saputo rapirmi e coinvolgermi nella storia e, attraverso le parole del personaggio, nei pensieri e nei sentimenti di questo, tanto da sentire la protagonista così vicina da pensare i suoi stessi pensieri e sentire le sue stesse emozioni. Mai mi era accaduta prima una magia simile.
Si tratta di Storia di una capinera scritto da Giovanni Verga intorno al 1870, prima della sua adesione al verismo. Nato a Catania, Verga non rimase sempre fermo in Sicilia. Fu durante il suo soggiorno a Firenze, mentre passeggiava solitario lungo l’Arno, che rievocando i ricordi della sua fanciullezza, ideò Storia di una capinera. Questo romanzo ha infatti vaghe note autobiografiche: ricorda una giovane educanda da cui Verga, da ragazzo, rimase in un certo modo incantato.
Mi è difficile raccontare la trama di un libro, mi sembra sempre di impoverirlo. A grandi linee, questo breve romanzo racconta le vicende di Maria, una giovane ragazza destinata a farsi monaca pur contro la sua volontà. Ritorna dunque il tema della monacazione forzata, che all’epoca di Verga iniziava a essere riconosciuta come una forma di violenza, una costrizione che per molto tempo le donne si trovarono a subire. Intorno a questo tema della Storia di un popolo, si delinea, con accurata finezza psicologica, la storia di Maria: le sue passioni, che non riesce a troncare ma anzi alimenta fino alla morte; le sue paure, fra queste lo sconforto di fronte alla vita arida che l’attende e di fronte alla mancanza di libertà; e soprattutto la solitudine cui è destinata. Emozioni e stati d’animo che si possono provare non solo tra le mura di un convento.
Viene spontaneo qui ricollegarsi al titolo, che Verga ci spiega fin dalle prime pagine.
La capinera è un uccello, dal tipico capo nero, che lo scrittore vede morire da bambino: chiusa in gabbia, privata della sua libertà, la piccola creatura muore silenziosamente, lasciando dietro di sé la scodella ancora piena di miglio e briciole di pane. Non era quello il nutrimento di cui sentiva impellente il bisogno.
E’ un libro piccolo questo, ma se si legge tutto d’un fiato non è per le poche pagine, bensì per il rapporto di intensa empatia che si crea tra il lettore e Maria. Questo è dovuto alla completezza della scrittura di Verga, che già in questo libro (una delle sue prime opere), dimostra una fine abilità psicologica nel delineare il personaggio, non risparmiando neanche gli aspetti più dolorosi della realtà in cui si trova. Anche la struttura del romanzo contribuisce nel creare la partecipazione del lettore al dolore della protagonista: il libro è scritto in prima persona, sotto forma di epistolario, e racchiude soltanto le lettere di Maria: non sono mai presenti quelle della sua interlocutrice, unica amica e confidente. Questa scelta ci fa sentire Maria più sola e dunque più vicina ancora.
Consiglio questo romanzo perché penso che dalla bellezza del linguaggio adoperato da Verga si possa trarre una gran ispirazione nella scrittura. Consiglio questo romanzo anche perché potrebbe dimostrarsi uno sbocco per nuove letture, realizzando come degli incontri, in questo caso con un libro, che altro non è che un piccolo gioiello in grado di farci emozionare e riflettere, come se dietro quelle pagine si nascondesse davvero una creatura viva e palpitante.
Margherita Buratti Zanchi 2D