Rohingya: il silenzio dell’”orchidea d’acciaio”

La storia che il lab magazine oggi vi racconta accade lontano da qui, nell’Asia sudorientale. Non si tratta di un racconto zen ambientato in un giardino delle delizie, ma al contrario di una storia complessa, drammatica, sconosciuta ai più ma anche carica di speranza. È quella della Birmania di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991.

Le notizie che giungono qui in Italia dal Rakhine, stato nell’ovest del paese, sono raccapriccianti. Le violenze fisiche e psicologiche, gli stupri e le umiliazioni che l’esercito birmano compie quotidianamente nei confronti della minoranza Rohingya fanno parte di uno sterminio che, anche e soprattutto nel XXI secolo, non può essere accettato.

Sembra che la storia voglia giocare con la morte e con l’assurdo: prima il potere nelle mani della giunta militare, poi la vittoria nel novembre 2015 della Lega Nazionale per la Democrazia, oggi un nuovo, drammatico epilogo.

L’associazione per l’Amicizia Italia-Birmania di Parma e il suo presidente Carlo Ferrari ci chiariscono i tasselli del delicato percorso che la Birmania sta intraprendendo. Quella che ci raccontano è una storia che al contrario di prima non ha nulla di assurdo, almeno per certi aspetti. Ma andiamo con ordine.

Dopo quasi settant’anni di dittatura militare, il partito di Aung San Suu Kyi vince democraticamente le elezioni e la Signora diventa consigliere di stato della Birmania: tuttavia, non ci si deve immaginare un governo nelle sue mani. “La costituzione birmana – come spiega il presidente Carlo Ferrari – garantisce alle forze armate il controllo di tre ministeri cardine (interni, frontiere, difesa) e più in generale il controllo della maggior parte delle decisioni governative”.

“La priorità di Suu è quella di giungere ad una pacificazione nazionale” – prosegue -, fino ad ora mai raggiunta a causa delle tensioni che lacerano da sempre le 135 diverse etnie che vivono nel paese. Uno dei fronti più caldi è quello appunto del Rakhine, al confine con il Bangladesh, dove la minoranza musulmana Rohingya non è mai stata riconosciuta come popolo della nazione.

L’azione di Suu è silenziosa e procede a piccoli passi: “con la conferenza di Panglong, iniziata il 31 agosto 2016, si sta cercando di demilitarizzare i gruppi armati del paese, in vista della creazione di uno stato federale. Ma la situazione – ci spiega – sembra ancora una volta volgere verso un’altra direzione, perché dietro ai recenti assalti alle forze di sicurezza birmane sembra dominare l’ombra dell’Isis, che ha utilizzato gruppi Rohingya come scudi umani”.

Porre fine allo sterminio di questa popolazione, così come a tante altre difficili situazioni disseminate nel paese, è una delle priorità assolute. Ma “in questo momento prendere apertamente le difese dei Rohingya potrebbe significare un pericolo per Suu Kyi, costantemente minacciata da un possibile colpo di stato”.

Il sostegno di cui avrebbe bisogno dalla comunità internazionale, che solamente mostra di indignarsi nei confronti del suo silenzio, spesso è assente. Carlo Ferrari ci svela, infatti, che “diversi paesi occidentali intrattengono da anni rapporti d’affari con l’esercito Birmano”. Lo sapevate? Qualche media ve lo ha raccontato?

“Mettere in cattiva luce la figura e l’operato della Signora è un modo da parte dei militari per ostacolare il lungo processo di democratizzazione della Birmania”. Aung San Suu Kyi è come una piccola lucciola nel buio della notte. Così come una lucciola si tiene ben lontana dalle luci della città preferendo la campagna, lo stesso fa Suu: senza riflettori alle spalle, silenziosa rischiara notte dopo notte le tenebre e gli strascichi della dittatura.

Intanto a riecheggiare nell’eterno della storia c’è la sua vita passata: venti anni di arresti domiciliari in cui ha perso il marito a causa di una malattia e, inevitabilmente, i legami con i due figli. Una vita dedicata esclusivamente agli altri: un’ascesi attiva e proiettata al bene del suo popolo.

Mattia Sansone

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