Livio Bucci nacque nel 1920 a Castrignano, sulle colline parmensi, da Clementina Quarantelli e da Francesco Bucci, in una famiglia contadina. Per questo fu egli stesso contadino, spaccalegna e falegname mentre di notte cuoceva i prosciutti.
Poco prima della Seconda Guerra mondiale prese parte ad una spedizione militare in Albania. Ritornando in patria, dopo aver ottenuto una licenza, fu arrestato dai nazisti durante il rastrellamento del treno su cui stava viaggiando.
Fu deportato in un campo di concentramento vicino a Lipsia, dove venne messo a lavorare in una miniera di carbone, dove le condizioni di vita erano tremende. Dopo un anno, delle settecento persone che erano entrate nel campo con lui ne sopravvivevano appena un centinaio. Fu poi mandato a scavare tra le macerie per recuperare i cadaveri che vi erano nascosti e, in seguito, ad assemblare munizioni ed esplosivi in una fabbrica di armi, assieme a prigionieri russi e tedeschi, di cui non capiva la lingua.
In quell’ambiente conobbe una giovane tedesca libera che si innamorò di lui, tanto da cominciare a portargli pane e bucce di patate perché sopravvivesse. Lui le promise che l’avrebbe sposata una volta libero.
Verso la fine della guerra, quando ormai i tedeschi si stavano ritirando davanti all’avanzata delle truppe alleate, riuscì a fuggire dal campo assieme ad alcuni compagni grazie a delle informazioni dategli dalla ragazza, che lo condussero a casa sua. Qui, però, la trovò uccisa assieme al padre.
Dopo mesi di tormento in viaggio riuscì a ritornare in Italia e, in seguito, nel paesino in collina. Quando vi arrivò, irriconoscibile e pesante appena 35 kg, vide una donna che lavava i panni in una fontana. Le si avvicino e lei gli chiese se avesse bisogno di qualcosa. Non era riuscita a riconoscere il figlio sopravvissuto.
Segue un estratto del diario di Livio, redatto durante il viaggio di ritorno in Italia dalla Germania, fornito dai figli, Giancarlo e Claudio, e dalla nipote Luna, ex studentessa del Liceo Bertolucci, che si ringraziano per aver permesso di pubblicare tale testimonianza.
LA FUGA
La mattina del 14 aprile 1945 ci scegliamo con gli Americani che perlustrano la zona ed il paese.
Finalmente ci troviamo liberi.
Già ci si preparava alla partenza; si rubano, a tal fine, auto, camion, motociclette, biciclette, tutti quei mezzi, in sostanza, che servono a condurci presto a casa.
Si stabilisce di fare un’unica autocolonna. Si provano e si riparano le macchine.
Quando, però, si va al Comando Militare per chiedere l’autorizzazione di poter viaggiare liberamente, troviamo l’intoppo: non è possibile, perché veniamo ad intralciare il traffico delle Forze Alleate. Ci si consiglia di attendere il Comando Presidio del paese, che s’interesserà, in proseguo di tempo, a mandarci via direttamente. Ogni nostro entusiasmo crolla.
Arriva il Presidio. Viene il giorno che segna la fine delle ostilità in Europa (8 maggio c. a.). Vanno via i civili ed i prigionieri russi. Vanno pure via i Francesi, e a noi si fanno sempre le solite promesse.
Viviamo in un’agitazione d’animo continua ed angosciosa.
Si vocifera, intanto, che i Russi presidieranno fra breve anche questa zona conquistata dagli Americani.
Si sta con le orecchie sempre in ascolto. Già le radio trasmittenti italiane e qualche altra straniera annunziano che entrano giornalmente in Italia, sia con mezzi di fortuna che con regolare tradotta, migliaia e migliaia di ex internati italiani in Germania; che si stanno approntando quaranta campi di concentramento per smistare i reduci; che autocolonne pontificie giungono a Milano per accogliere ed assistere questi poveri… disgraziati; che… insomma, tante e tante belle cose che servono solo ad acuire in molti di noi il desiderio di ritornare presto nelle nostre case.
Finalmente l’11 giugno, un ufficiale americano ci dice di tenerci pronti per le cinque pomeridiane, chè ci condurranno al luogo dove si formerà una tradotta. Grande è il fracasso! Ci si prepara gli zaini, allegri e contenti. Ci si crede quasi di essere in treno, quando arriva un contr’ordine, che smorza subito la nostra ilarità. S’impreca contro i responsabili della nostra situazione.
Passano ancora giorni di fermento d’animo.
Giunge il 27 giugno ed alcuni camion americani ci traslocano alle casermette di un’ex contraerea tedesca, site nel paesetto di Vörmlitz, a 4 chilometri circa da Halle.
Ci si promette che fra qualche giorno si parte.
I giorni passano.
Le Forze americane si spostano. Si vedono già i primi soldati russi… (Fra parentesi debbo dire che dei cattivi soggetti polacchi, messisi d’accordo con due di questi, a tarda sera, armati di pistole, ci derubano di tutto ciò che può avere un valore). Si comincia a star male.
Alcuni di noi decidiamo la fuga.
Ecco il diario:
5 LUGLIO – La Mattina presto, alle 6 circa, ci dirigiamo, con zaini e bagagli alla stazione. Arriviamo proprio in tempo a prendere il treno delle 8, che da Halle ci condurrà, dopo più di un’ora di movimento, a Lipsia. Qui ci fermiamo ed attendiamo quello delle 17:30.
Si mangia qualche fetta di pane del filone che ciascuno di noi ha portato con sé. Dopo, tanto per far passare bene il tempo, alcuni dormono, altri passeggiano, altri ancora cercano di mercanteggiare degli oggetti di valore per pane e denaro.
Si parte. Strada facendo, si osservano le rovine ed i danni subiti dalle industrie della periferia e della provincia di Lipsia. Si arriva alla stazione di Zwickau verso l’imbrunire. Si mangia e poi ci si addormenta nel vagone del treno che partirà domani.
6 LUGLIO – Ci svegliamo con qualche ammaccatura alle costole e con qualche sordo dolorino alla schiena ed alle natiche. Ma, coscienti di dover passare delle notti più nere, non ci si bada tanto per il sottile. Si parte e di arriva a Reichenbach, dove è giocoforza fermarci per attendere il treno che da qui partirà alle 12:50.
Si esce dalla stazione. La vita di questa cittadina sembra abbastanza normale; la guerra vi ha lasciato pochi segni. Si ritorna e c’imbattiamo in altri profughi. La famiglia è adesso salita ad un centinaio di persone.
Si parte. Mentre il treno fila, dentro il vagone si canta. Sono canzoni d’amore, canzoni paesane, canzoni che ridestano nell’anima sentimenti di nostalgia… ricordi lontani.
Il cielo, stamattina sereno, ricomincia ora ad offuscarsi. Cadono i primi goccioloni. La campagna di ammanta di una leggera cortina di nebbia. Piove a dirotto. In poco tempo il selciato, dove lunghe si stendono le rotaie, è terso e quasi fragrante. Ad un tratto il convoglio si ferma. Scendiamo: la voragine di un ponte diruto sta a noi davanti. Chi da una parte, chi da un’altra, c’inoltriamo, scendendo gradatamente, in mezzo ai cespugli dello scosceso burrone. La pioggia cade ora lenta lenta. I frassini, scrollati al nostro passaggio, ci trasmettono un umidore che ci raggiunge la carne. Si scende sempre più a fatica. Finalmente stiamo vicino ad una passerella che sovrasta un corso d’acqua. Si respira un po’.
Alzando gli occhi, ci sembra quasi di essere stati inghiottiti dalla terra, tanto siamo in basso. Ci accingiamo adesso a risalire il versante opposto del burrone. Esce come d’incanto il sole. Traspira la terra. Da questa parte si sente il treno che arriva. Si fa ancora uno sforzo e su, finché si giunge davanti alla macchina, stillanti sudore, con la gola arsa e stretta, quasi incapaci di articolar parola. Si ha voglia di bagnarci almeno le labbra; ma nessuno ha acqua.
Il treno affollatissimo accenna a partire. Molti restano a terra.
Si arriva alla stazione di Plauen, dove regna la desolazione più assoluta. Rotaie divelte; macchine rovesciate; vetture ammucchiate in scheletrici pezzi; palazzi e casolari diroccati in modo sinistro. La terra, orrendamente sconvolta, sembra chiedere pietà.
Ancora un po’ di marcia e ci fermiamo alla stazioncina di Gütenfurst; il treno non prosegue più, perché a otto chilometri circa c’è la delimitazione di confine tra la zona russa e quella americana.
E’ vespero. Chi va da una parte, che va da un’altra; chi fa un divisamento, chi ne fa un altro; la nostra squadra che alla partenza si componeva di 17 persone (compresa una giovane russa, unitasi in matrimonio con uno dei nostri) adesso s’è sbandata e s’è ridotta a 11 membri.
Si cerca un posticino appartato per potervi passare la notte. Intanto che due di noi si allontanano per la dovuta ricerca, il gruppetto si appiatta accanto ad una capanna chiusa, vicino alla quale si copre di ruggine una vecchia macchina agricola. Questa suscita la nostra curiosità. E tosto affidiamo ad essa un potere divinatorio. Giriamo per tre volte la… ruota… del destino e tutte e tre le volte i segni da noi prefissi coincidono: sul libro d’oro dei grandi viaggi sta dunque scritto che noi presto rientreremo in Italia. Giuoco puerile, questo, ma che ci solleva l’animo di tanto. Ritornano i due compagni e dicono di aver trovato, presso un contadino, una capanna adibita a ripostiglio di utensili da lavoro. Si va e si dorme, su della paglia, discretamente bene.
7 LUGLIO – Piove! Nostre imprecazioni al tempo e alla terra.
Rivediamo due della squadra che erano rimasti a terra. Il numero dei fuggiaschi è salito in questo paese a più di trecento.
8 LUGLIO – Buona parte del giorno passa quasi senza accorgercene. Nel pomeriggio il borgomastro ci invita per ordine del comando russo a spostarci indietro di circa cinque chilometri. Si pensa subito che tale disposizione sia stata emessa per evitare ruberie alla campagna ed al paese. Ci si mette su ciò d’accordo col borgomastro e si rimane. Passano lacune ore di silenzio. Ad un tratto si vedono venire dalla nostra parte parecchi prigionieri tedeschi, che, interrogati, ci assicurano che le frontiere sono state aperte per alcuni giorni. Per paura che possa arrivare un contr’ordine, ci mettiamo subito in cammino. La giovane russa, entusiasta, è fra i primi del gruppo: ella riscuote la simpatia e l’ammirazione nostra per l’esempio e l’interesse che dimostra in quest’avventuroso viaggio.
Avanziamo gravi, in fila indiana, su un viottolo della strada ferrata, che si stende in mezzo a interminabili boschi.
Comincia ad imbrunire e pare che non si arrivi mai. Ad un tratto ecco tre soldati russi che ci chiedono i documenti; interrogano pure la fanciulla e vogliono sapere perché sia sprovvista di carte di riconoscimento. Ella finge di non saper parlare il tedesco e sciorina delle frasi italiane, per far loro intendere che è italiana. Poi, un po’ con i gesti, un po’ con mezze parole tedesche, sia lei che noi facciamo comprendere che ella ha perduto i documenti durante il bombardamento della fabbrica in cui lavorava, bombardamento che in realtà non è mai avvenuto.
Ci lasciano passare. Ma dopo appena cinque minuti incontriamo altri soldati di servizio che ci fanno fare la strada del ritorno. Imprechiamo come tanti dannati.
Si ritorna alla capanna che è buio fitto. Stanchi e demoralizzati ci sdraiamo sulla maglia: la mezzanotte è già passata da tempo.
9 LUGLIO – Partiamo la mattina presto. Questa volta si va per la strada maestra. Si nota un po’ di nebbia, ma si prosegue lo stesso, e con accanimento, per allontanarci al più presto da quella zona di sfortuna. Dopo un po’ di strada, lo scrivente si accorge di aver dimenticato nella capanna la borsetta con dentro alcuni libri e un diario. Addolorato vorrebbe quasi tornare indietro, ma la strada è lunga e la paura di rimanere bloccato nella zona lo fa desistere dal proponimento. Si va avanti fino ad un posto di blocco. Dopo un’ora di attesa ci si lascia passare. Siamo nella zona di nessuno e si spera che gli americani si decidano ad accoglierci dall’altra parte. Vana speranza! Passano lunghe ore. Altri italiani ed altri profughi tedeschi entrano in questa zona di nessuno. La massa di questi non desiderabili esseri cresce sempre più. Fa buio e la notte la passiamo stesi a terra, all’aria fresca.
10 LUGLIO – Scemiamo di numero; cinque del nostro gruppo se la son cavata bene. A mezzogiorno, mentre fa un caldo soffocante, decidiamo di scappare pure noi. Costeggiando un muretto ci interniamo nella boscaglia e dopo un po’ di marcia silenziosa usciamo sulla strada.
Si ha la ferma intenzione di non fermarci fino alla stazione di Hof. Purtroppo però alcuni colpi di moschetto ci sbandano; degli americani in macchina, brandendo i moschetti, ci fanno cenno di andare tutti per i campi.
Gli spari mi hanno diviso dal resto della squadra. Trovo altri compagni di cattività e scendo con loro giù in valle. Un ruscelletto d’acqua fresca ci disseta e ci offre l’occasione di fare un bel bagno.
Ci rimettiamo in cammino freschi, ma con un sole che scotta. Si arriva ad Hof caldi e con i panni bagnati. Alla stazione rivedo i primi cinque fuggiaschi, che, ottenuto il permesso, partiranno nella notte con un merci. Saluto i fortunati e mi avvicino al vicino campo di concentramento per passarvi la notte. Una fetta di pane con un po’ di salame mi ristora lo stomaco.
11 LUGLIO – Avuto il permesso dal Comando americano, incontro alla stazione il resto del gruppo, che (non potendo sapere nulla di preciso, né dal personale delle ferrovie, né dagli americani) attende un treno qualsiasi che lo conduca verso sud.
Passiamo la giornata insieme con il desiderio di trovarci presto in movimento. Ma invano. Sopravviene la notte e ci buttiamo a terra, lungo il corridoio della stazione.
12 LUGLIO – Si vive sempre con ansia.
Finalmente nel pomeriggio arriva un treno merci. Diamo subito la scalata. Di cinquecento persone circa, a terra non resta nemmeno l’ombra. Noi andiamo a finire in un carro di ghiaia incatramata. Stiamo su come tante cose amorfe. Si parte e si abbandona definitivamente questo luogo di penitenza. L’aria fredda e le fiammelle che macchina, come un vulcano in fermento, sputa fuori, sono le piccanti compagne della nostra notte d’insonnia.
13 LUGLIO – La mattina alle sei circa ci fermiamo a Barberger. Ci si rinfresca il viso ad una fontana della stazione. La fortuna questa volta sembra venirci incontro. Ci accorgiamo di una tradotta italiana che fa sosta. Ci intrufoliamo dentro e dopo un po’ la macchina è in movimento.
Passiamo per Norimberga, le rovine della quale non ci impressionano punto. L’occhio sembra che si sia ormai abituato a questi generi di spettacoli.
Verso l’imbrunire tocchiamo Augusta.
14 LUGLIO – Ci troviamo fermi in mezzo ad una boscaglia. Si riparte. Nel pomeriggio ci fermiamo, non si sa perché, né per quanto tempo, a Starnberg, vicino al lago omonimo. Qui ammiriamo la vita movimentata del lago. Chi fa il bagno, chi lava i panni, e chi fra noi cerca di trafficare per ottenere del pane. A sera inoltrata si riparte.
15 LUGLIO – Ci svegliamo fermiamo ancora una volta in campagna aperta. Nel tardo pomeriggio siamo alla stazioncina di Garmisch, dove gli americani ci vogliono far passare due o tre giorni di… villeggiatura. Si scende e dopo due chilometri circa di cammino arriviamo in un’ex caserma di cavalleria, dove sotto un olezzo inebriante (meno male che c’è il rinfresco del fiume vicino!) passeremo gli ultimi giorni della nostra prolungata penitenza. Alla sera ci imbattiamo in quei cinque compagni che ci hanno preceduti nel viaggio, alla partenza da Hof. Avendo oggi fatta la disinfestazione, partiranno domani.
16 LUGLIO – In giornata ci incontriamo in coloro che avevamo perduto di vista alla stazioncina di Gütenfurst. La sera passa giocando a carte.
17 LUGLIO – Facciamo la disinfestazione.
18 LUGLIO – Ci si sveglia presto perché si sente in aria odor di partenza. Alle 10:20 infatti i camion americani ci portano alla stazione. Alle 12:20 la nostra tradotta parte. Si arriva ad Innsbruck dopo appena due ore. Qui ci viene offerto un pacco francese per ogni quattro persone. Alle 19:00 circa dopo tanta ansia ci troviamo al Brennero. Sventolano gli stendardi italiani!
FINE
Federico Notari, 4E