Sentire le persone parlare della propria vita come si parla di un bellissimo, vecchio quadro, che non si tocca, un po’ perché non ci si vuole sporcare le mani di polvere, un po’ per paura di graffiare il rivestimento sottile di plastica sopra. Non ci rendiamo quasi mai conto delle potenzialità che hanno le cose.
Dieci giorni fa tornavo da un volo diretto dall’aeroporto di Tokyo, Narita, e non reggo il peso di tutte le piccole cose che ho intuito; credo di vedere il quadro da un po’ più distante, e cerco di mettere insieme i pezzi ma non si incastra niente, quindi accetto quello a cui cercano così disperatamente di attribuire un senso, un verso. Nulla da fare, ma va bene così.
Mi sembra di essere vissuta in una specie di simulazione distopica negli ultimi tempi, continuo a pensare che non sia possibile essere adesso sullo stesso pianeta in cui ero appena un mese fa.
Tutto, sia chiaro, TUTTO è diverso: a partire dal cibo, le persone, le leggi, le convenzioni sociali, le opinioni che uomini di mezza età esprimono in bar semivuoti, non è mai successo mai quello che prevedessi. C’è un numero spropositato di cose “pratiche” che aiutano a rendere la vita più veloce possibile, per estrapolare il massimo dalle ore produttive. Il tempo ha più valore di tutto. Tutto è in funzione del tempo. Nei supermercati c’è un reparto enorme di cibo già pronto, squisito, ordinato, impacchettato in modo impeccabile, pronto per il consumo.
Nei surgelati i gelati sono venduti singolarmente, così come i succhi di frutta. La diversificazione del mercato è impressionante ma il Giappone resta un paese incredibilmente chiuso: meno del cinque per cento della popolazione può parlare fluentemente inglese e il cibo delle grandi catene deve essere adottato ai gusti tipici per far sì che la gente ci vada a mangiare.
Appena prima dell’uscita del supermercato c’è sempre una piccola area dove ci si siede con un forno a microonde, un lavandino, una “vending machine” gratuita di the verde “macha” caldo o freddo, acqua liscia o gassata, talvolta una dispensa di ghiaccio.
Insomma, tra tante piccole differenze nella vita quotidiana, nulla ha impattato sulle mie impressioni del posto come la vita scolastica (luogo primario degli stereotipi che noi italiani abbiamo del posto). A scuola ho notato che studenti liceali e adulti hanno comportamenti estremamente infantili, e nonostante questo su di loro gravano moltissime responsabilità.
E’ indispensabile infatti capire fin da subito quanto le proprie azioni e mancanze incidano sulle altre persone, anche per questo motivo non credo di aver mai incontrato neanche una persona scortese: tutti quelli con cui ho interagito sembravano pronti ad aiutarmi in qualunque momento per qualunque difficoltà. Onestamente ho trovato la disponibilità delle persone quasi inquietante a un certo punto, ho pensato che non potesse non essere deleteria per loro, poi ho notato che nessuno si approfittava della gentilezza altrui.
In tutto è intrinseca un’aura strana, in un’altra dimensione, ad un livello un po’ più in alto rispetto alla realtà, è insinuata nelle percezioni delle cose che si muovono, è nei colori, nei templi rossi, nei disegni tradizionali, nei sorrisi delle persone, così gentili, così in contrasto rispetto agli occhi vispi, pieni di aspettative.
Un’ amica del posto è solita dire che il “Giappone si sviluppa verso l’alto”. E’ capitato che vedessi ristorantini di ramen tanto stretti quanto economici nello stesso edificio di hotel di lusso, poi un centro massaggi, un cafe, un macdonald tutti insieme, separati solo da una rampa di scale.
Tutto è macchinoso e fluido allo stesso tempo, tremendamente pratico e surreale, colorato e uniforme, a volte grigio, dilatato e angusto nel tempo. Tutti si identificano con tutti gli altri, con l’identità nazionale, con Disneyland Tokyo, idealizzano e deformano la realtà e vivono nella percezione della stessa utopia. E’ un equilibrio sottilissimo tra efficacia e allucinazione, tra la scelta di pendolare verso il proprio ufficio in una camicia turchese oppure prendere il treno sbagliato e finire dall’altro capo del paese per adottare un’altra identità. Sinceramente la mattina prima di andare a scuola ho pensato che i miei genitori ospitanti potessero fare qualcosa di simile per i motivi più svariati.
Quasi nessuno è religioso, ma tutti rispettano le tradizioni buddhiste, soprattutto quelle riguardanti le persone morte, i modi per mantenere vivo il loro ricordo, per farle felici, quasi come se non potessero lasciarle andare. Ripensandoci ora, sembra un sogno febbrile estivo.
Parliamo del nostro bel dipinto come se non cambiasse mai, come se il tempo in sé non fosse già abbastanza per rovinarlo lentamente. Allontanati dalla tela, cerca di guardare il quadro generale, spolvera gli occhi, se serve strappati via la vecchia pelle e sostituiscila, non aver paura di perdere l’identità che qualche decina di anni in questo mondo hanno costruito, perché se non lo facciamo da soli la vita lo farà per noi.
Elena Sofia Petroni 5E