Ammettere che il nostro comune destino combaci nella morte, una morte insipida e scialba, traguardo di una vita passata a deridere, a ignorare, a seviziare e calpestare, non è nichilismo, ma mera esposizione dei fatti.
Ed è ipocrita giudicare volgarmente “depressi” i filosofi e i poeti che hanno espresso, certamente con maggiore destrezza ed ingegno, questa mia stessa visione del mondo. Per Sartre, l’inferno sono gli altri, ma negli altri vedi il male che c’è in te. Per Nietzsche “La cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa, simile ad una corrente che vuole giungere alla fine”. Per Hirst “Si riduce tutto alla morte.” Tre tra mille altri esempi.
Gli animi sottili, di chi ancora vive protetto dalla campana di vetro dell’ignoranza, si chiederanno come e perché giungere voracemente a tali conclusioni. Io piuttosto mi domando come non giungervi. È noto e arcinoto il male inflitto dall’uomo alla terra, terra che ci ha dato la vita e che così stiamo ripagando. Di giorno in giorno passo e tralascio notizie di morte e di dolore, e di giorno in giorno affino il sentimento di misantropia che ho imparato ad accettare vivendo qui.
C’è una gamma infinita di mali che l’uomo, turpe e nocivo, plasma ed esercita, uno tra tanti è la schiavitù. E, di nuovo, è ipocrita giudicare la schiavitù ai tempi dei romani, la tratta degli schiavi, perché sebbene segua le stesse ragioni dell’oppressione odierna e contemporanea, a cambiare è la coscienza dell’ingiustizia, la mortificazione della morale; se agli occhi dei coloni europei era cosa buona e giusta massacrare e umiliare le popolazioni indigene, e se agli occhi del grande impero era norma comune soggiogare i propri pari per divergenze sociali ed economiche, significa che non era l’indifferenza a guidarli, forse nemmeno l’egoismo, ma piuttosto la diversa comprensione delle cose. E sono esistiti, sebbene rari, uomini colti, in grado di accorgersi e di denunciare tali soprusi. Bartolomeo De Las Casas, frate spagnolo, denuncia nei suoi scritti le atrocità inflitte dagli spagnoli agli Indios, presentandone una descrizione di qualità fisiche, morali e intellettuali, finalizzata alla difesa dell’umanità degli abitanti del nuovo mondo, in contrapposizione alla tesi della loro bestialità avanzata dai contemporanei. Seneca, 1500 anni prima, più che opporsi alla schiavitù, ne difende la dignità, mostrando perché l’umiltà di una persona non debba definire il rispetto che le è dovuto.
Oggi siamo consci, certamente più dei romani e dei coloni europei, dell’illegittimità della schiavitù, eppure nulla è cambiato. L’unica differenza tra noi e loro è il perbenismo.
Bramiamo la pace facendo la guerra, osserviamo un credo che incoraggia ad amare odiando chi non è come noi, amiamo la natura ma inquiniamo, amiamo gli animali ma li soggioghiamo, li costringiamo a una vita di lerciume, orrore e oppressione per ucciderli e soddisfare i nostri insulsi piaceri, a discapito della loro libertà, quella con cui nascono, la stessa con cui nasciamo noi. Non sappiamo curarci né di noi né degli altri né del mondo, e non so spiegarmi il perché. È comodo dare la colpa alla società, addossando il torto a qualcosa che non esiste. Siamo noi la società, abbiamo noi la colpa, ma nessuna goccia d’acqua si sente responsabile in un maremoto.
Perché facciamo così fatica a volerci bene? Siamo fatti per amare, ma ho come l’impressione che non sappiamo farlo. Perché c’è così poco amore tra le persone? Perché non sappiamo dire grazie, perché non sappiamo dire scusa? Perché non capiamo che siamo tutti esseri umani, che viviamo sotto lo stesso cielo e sulla stessa erba, nelle stesse case con gli stessi problemi; che seminando rabbia otteniamo odio e paura, che maltrattano gli altri maltrattiamo noi stessi, che non serve urlare per avere perché basta chiedere, che non serve uccidere per sentirsi più forti perché basta studiare, che non serve morire per trovare la pace perché la si può trovare anche qui, basta volerlo, basta rivedere noi negli altri, basta attivare quel neurone che ti permette di farlo, e che ti permette di capire quanto sia inutile l’egoismo, di capire quanto sia ridicola l’indifferenza, di quanto tempo ci ha fatto perdere il portare rancore verso qualcuno, di quanto tempo si può risparmiare non facendolo, per investirlo invece in una risata o in un sorriso, per stare con chi ci vuole bene, per leggere, per guardare il cielo.
Non hai mai guardato veramente il cielo se non hai capito che cos’è. È ciò che ci unisce nel nostro essere tutti umani, nel nostro respirare, nel nostro ridere e parlare, nel correre e camminare, nel modo in cui vediamo le cose.
Siamo un unico grande respiro e respiriamo tutti lo stesso cielo, la stessa aria, con gli stessi polmoni. Siamo un solo corpo, malato, che non sa curarsi.
Perché corpo? Perché non ti curi? Perché non guardi mai il cielo?
Martina Alberici 5E // scirxppo