Tecum fugis

Ho odiato Parma. Ho odiato capitarci sopra giocando a Monopoli, con gli amici, tornare a casa dopo un viaggio lungo, o uno breve. Ho odiato essere associata al prosciutto crudo e al parmigiano. Ho odiato la Tep, i parcheggi del Barilla, il trenino per turisti, i falsi e molesti ragazzi di vita, dispersi tra Ghiaia, duomo e stazione. Ho odiato i bar del centro, il frastuono dello stadio la domenica mattina, la brevità degli scaffali per poesie di Feltrinelli, la brevità dei rapporti, la brevità delle giornate, la brevità della neve d’inverno e della notte d’estate. Assocerò per sempre Parma a tre cose: uno, l’inceneritore che per 18 anni ho avuto di fianco a casa; due, il parco di San Leonardo; tre, non per importanza, le nutrie morte investite sulle strade di periferia. 

Pianifico la fuga, che ha come capro espiatorio l’orizzonte universitario, da quando ho preso coscienza del mio libero arbitrio, ma adesso che l’azione si fa sempre più vicina una voce, sommessa, urla “mi mancherà”. 

Forse non ho odiato Parma. Forse fuggire non servirà ad altro che a farmi odiare altre città. Forse non devo cambiare cielo, o terra, per scrollarmi l’odio di dosso, forse odierei allo stesso modo Torino, mi stuferei di Venezia, disprezzerei Roma, Bologna e Firenze. Senza forse. Se fuggo, ciò che mi avrà portata a fuggire verrà con me, mi perseguiterà, mi consumerà, come un pastello, fino all’ultimo pezzo di cera. E quando la cera sarà finita e non avrò trovato un posto nel mondo, allora ricorderò di quel Seneca che scrisse: “Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia che scompaiano terre e città all’orizzonte. I tuoi vizi ti seguiranno ovunque andrai”. 

Ho passato quel poco che è la mia vita a gettare sale sul nome di una Parma innocente, reputandola rea dei miei turbamenti, colpevole dei miei disagi, fonte primaria dell’inquietudine, del tedio, dello spleen, checché si voglia chiamare. 

E come i pazienti sottoposti a psicanalisi possono cedere, senza volerlo, al transfert negativo, proiettando l’odio sul proprio analista, così io, patiens dolente, ho proiettato il mio interno patire su questa città. Sebbene senza psicoanalisi, ho ricondotto quest’odio dislocato al luogo della sua genesi, alle sue radici, contorte come rami dentro di me. “Tecum fugis” è l’unica medicina, l’unico rimedio, l’unica cura. “Deponi il peso dell’animo: prima di allora nessun luogo ti piacerà”. Se non lo facessi, muoverei un aegrum, un ammalato, a cui uno spostamento, una fuga, non potrebbe che nuocere.

Fuggirò quindi me stessa, prima della mia città. E quando, con me stessa, mi sarò fuggita, svanirà la malattia e quel “Non sum uni angulo natus, patria mea totus hic mundus es” potrà realizzarsi, e potrò ammettere a voce alta che Parma, nonostante le nutrie morte e disseminate per le strade, mi mancherà.

 

Testo e foto di Martina Alberici 5E // scirxppo

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