Un passo alla volta – Con la prof.ssa Pezzani alla scoperta del progetto “Pink is Good”

C’è un’immagine, una sensazione, una parola con cui si sentirebbe di descrivere la sua esperienza?

E’ un viaggio, un percorso che coinvolge tutta la persona, non solo il corpo ma anche lo spirito. Mi guardo indietro, vedo chi ero e vedo il cammino che la malattia mi sta facendo percorrere.

Quando arriva la diagnosi di un tumore, per quanto tu sappia da sempre che la vita finisce, capisci che c’è la morte: te ne devi occupare adesso, ma soprattutto ti devi occupare della vita.  Ciò ti porta a riprendere in mano la tua esistenza, i tuoi affetti, lavorando dentro di te e sulle priorità che si trasformano. E poi c’è anche un colore: con la diagnosi e l’inizio delle cure è il nero. Adesso però c’è il “pink”, il rosa, perchè la malattia può diventare un’occasione per rivedere in positivo la tua storia.

Cosa le ha dato la forza di fare i primi passi, per dirigersi dal nero al rosa appunto?

Intanto devi farlo per te perché è la tua vita. La prima ragione di vita sei tu: io voglio vivere. Poi ci sono i miei affetti: i miei figli, mio marito e i miei familiari. Ho sentito molto la mia famiglia al mio fianco. Il passaggio dal nero al rosa è comunque qualcosa di graduale, lento. Io non ho mai sentito rabbia – spesso molti si arrabbiano – ero molto provata fisicamente.

Questo cambiamento, che abbiamo visto riguardare nuove emozioni (tristezza e rabbia per alcuni), che impatto ha avuto sulla quotidianità?

La vita va vissuta 24 ore su 24 e questo è un messaggio molto forte. Ci sono fatica e preoccupazione ma c’è soprattutto voglia di vivere e di trasmettere messaggi positivi. Con questo scopo ho aderito al progetto “Pink is Good”  della Fondazione Veronesi, nato nel 2014. Le Pink per me sono state una grande forza: sono tutte compagne di uno stesso viaggio, un tumore femminile. C’è un capirsi immediato:  quasi tutte abbiamo fatto la chemio e abbiamo subito almeno un intervento, ci accomuna una diagnosi e un percorso di cura (e per fortuna che ci sono queste cure!).

Ora invece quando siamo insieme raccogliamo fondi per potenziare la ricerca, che sta facendo passi da gigante: due anni fa, per esempio, ho fatto il test genetico e sono risultata negativa ma la dottoressa mi ha detto “guardi però che lo dovrà rifare perché la ricerca sta andando così spedita che magari ci saranno altri geni indagati”. In più c’è il desiderio di testimoniare che nonostante tutto siamo qua e corriamo. Il nostro slogan è  “Niente ferma il rosa, niente ferma le donne”. Questo è lo spirito che ci anima. Quando ho indossato la maglietta per la prima volta ho sentito davvero una forza dentro, mi sono commossa e ho voluto fare una foto per conservare l’immagine di quel momento.

Il progetto dura un anno e si può entrare dopo sei mesi dalla fine delle terapie: bisogna essere un minimo in forza per gli allenamenti, anche se una delle nuove arrivate ha voluto aggiungersi quando ancora stava facendo la radio. Questi si svolgono a Rubiera per cui, tra famiglia e attività, ora riesco ad andarci raramente, ma ci vediamo sempre agli eventi canonici, perché siamo come una famiglia e vogliamo testimoniare che nonostante tutto si riparte.

Ottobre appunto è il mese della prevenzione rosa. Che progetti l’hanno impegnata con le Pink?

Il 13 Ottobre c’è stato un evento a Milano interamente dedicato alle Pink. Si è concluso in Triennale, e io, anche se mi sono infortunata, ho comunque terminato il percorso.  L’importante è non fermarsi, come non si deve fermare la ricerca. Un altro evento si è tenuto a metà novembre a Ravenna.

Ecco, prima ha fatto proprio l’esempio del test genetico. Può spiegarci in cosa consiste?

Si tratta di un semplicissimo esame del sangue con cui si va a verificare se si è portatori di alcune mutazioni, come le BRCA1 o le BRCA2: in questo caso si ha una probabilità abbastanza elevata di contrarre il tumore. Un caso famoso è stato quello di Angelina Jolie che, dopo essere risultata positiva al test genetico, ha asportato, in via preventiva, seno e utero.

Confrontandosi con altre Pink quindi è emerso, tra i lati positivi, il grande ruolo della ricerca. Quali sono state invece delle criticità riscontrate nell’attivare la cura?

Nel mio caso un grande problema è stato il Covid. Quando ho ricevuto la diagnosi eravamo appena usciti dal primo lockdown e mi sono spaventata molto. Avevo paura che bloccassero gli ospedali e con questi le terapie; in più non c’erano ancora i vaccini e io, essendo in chemioterapia, ero immunodepressa.

Secondo lei, come possiamo aiutare una persona che sta proseguendo lungo questo cammino senza metterla a disagio?

Ci deve guidare l’affetto per lei. Starle vicino significa farle sentire che ci siamo. Può bastare un messaggio, un gesto concreto d’aiuto…l’importante è che sia continuo. Un altro aspetto necessario è poi l’empatia, cercare di comprendere come si sente la persona che vogliamo aiutare: c’è chi perde i capelli, chi dimagrisce, chi prende molto peso e magari si vergogna a farsi vedere o a parlare. Può essere difficile accettare questi cambiamenti così drastici. Sono di conforto  gesti concreti e continuativi.

Qual è il messaggio principale che lei vuole far passare, come persona, come prof e come esponente del progetto “Pink is Good”?

Ricordiamoci che è importante fare prevenzione, avere cura di sè e sensibilizzare le persone. Non bisogna rinviare i controlli per paura di scoprire qualcosa: è indispensabile volersi bene.

Letizia Bruno 5D

 

Può interessarti...