In un anno presumibilmente compreso fra il 480 e il 470 a.C. un ignoto pittore greco di Poseidonia (la Paestum romana, 30 km a sud di Salerno) si appresta a dipingere le pareti di una tomba a cassa, costituita da cinque lastre calcaree in travertino locale con le dimensioni di cm 78x194x98. Utilizza la tecnica a tempera con il procedimento della sinopia, su di un intonaco di calce e sabbia, applicato in due strati dei quali il più sottile, in superficie, ben levigato e liscio, contiene anche una polvere di marmo che gli conferisce brillantezza e consistenza. Il ‘nostro’ artista, con ogni probabilità, dovette sentirsi molto soddisfatto della sua opera. Non è dato sapere, oggi, se il manufatto gli fu commissionato dal defunto quando era ancora in vita o richiesto da un testamento dello stesso o, ancora, voluto dopo la sua morte da qualche parente. In ogni caso l’opera è uno straordinario esempio dell’arte funeraria della Magna Grecia e, in base alle attuali conoscenze archeologiche, unica testimonianza nota di pittura greca figurativa e non vascolare (vale a dire la pittura sui vasi di terracotta, secondo due tecniche: quella più antica a figure nere su fondo rosso, sviluppata dal VII secolo a.C. in poi e quella a figure rosse su fondo nero, sorta ad Atene nel 530 a.C.). Ventiquattro secoli dopo, nel 1968, la tomba fu rinvenuta perfettamente conservata. Oggi è nota come “tomba del tuffatore” dalla raffigurazione sulla lastra di copertura ed è visibile presso il Museo archeologico nazionale di Paestum.
Sulle quattro lastre, che costituiscono le pareti della cassa, sono rappresentate scene tradizionali di simposio e di banchetto, interpretate come un convivio funebre. La scena del tuffatore, che si trova sul lato interno della lastra di copertura, potrebbe rappresentare il transito verso un mondo di conoscenza diversa da quella terrena cui un giovane greco accede secondo le esperienze nel simposio: l’abbandono al vino, all’eros, alla musica, al canto, alla poesia. Il giovane tuffatore si lancia da un pilone di pietra che ricorda le “pulai”, le mitiche colonne poste da Ercole a segnare il confine del mondo, simbolo del limite della conoscenza umana. L’ambientazione della scena è limitata ad una piccola superficie d’acqua e a due alberi stilizzati, forse tamerici, piante amanti dell’acqua e sacre agli antichi greci.
Secondo l’archeologo Mario Napoli (1915-1976) “il tuffo rappresenterebbe l’inizio del viaggio verso l’aldilà, compiuto dall’uomo al momento della morte, che è allo stesso tempo tuffo verso il mare della vera conoscenza”.
Già Platone (428-347 circa) intendeva la filosofia come esercizio di morte. Dal Fedone ricordiamo il celebre passo: “Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. Insomma, se l’anima è temporaneamente prigioniera del corpo, ogni suo sforzo sarà rivolto a lasciare la terra per fare ritorno al divino cui appartiene.
Ventiquattro secoli dopo che l’ignoto pittore greco aveva affrescato la tomba del tuffatore, il poeta Eugenio Montale (1896-1981) nella poesia Poiché la vita fugge (scritta nel gennaio 1980 e qui riportata da “Altri versi e poesie disperse”, “Lo Specchio” Mondadori, 1981) riprende l’immagine del “tuffo” come insondabile passaggio oltre la morte.
Poiché la vita fugge
e chi tenta di ricacciarla indietro
rientra nel gomitolo primigenio,
dove potremo occultare, se tentiamo
con rudimenti o peggio di sopravvivere,
gli oggetti che ci parvero
non peritura parte di noi stessi?
C’era una volta un piccolo scaffale
che viaggiava con Clizia, un ricettacolo
di Santi Padri e di poeti equivoci che forse
avesse la virtù di galleggiare
sulla cresta delle onde
quando il diluvio avrà sommerso tutto.
Se non di me almeno qualche briciola
di te dovrebbe vincere l’oblio.
E di me? La speranza è che sia disperso
il visibile e il tempo che gli ha dato
la dubbia prova che questa voce È
(una E maiuscola, la sola lettera
dell’alfabeto che rende possibile
o almeno ipotizzabile l’esistenza).
Poi (sovente hai portato
occhiali affumicati e li hai dimessi
del tutto con le pulci di John Donne)
preparati al gran tuffo.
Fummo felici un giorno, un’ora un attimo
e questo potrà essere distrutto?
C’è chi dice che tutto ricomincia
eguale come copia ma non lo credo
neppure come augurio. L’hai creduto
anche tu? Non esiste a Cuma una sibilla
che lo sappia. E se fosse, nessuno
sarebbe così sciocco da darle ascolto.
Prof. Lanzi