Immaginate di subire un grandissimo torto, che qualcuno vi porti via la cosa più cara che possedete. La reazione della maggior parte di noi sarebbe d’odio verso chi ce l’ha tolta, ci scaglieremmo contro il colpevole con tutto il nostro risentimento. La rabbia, il dolore, legati alla perdita ci sovrasterebbero, facendoci cadere in un tunnel di solitudine. Ci siamo noi e il nostro irreparabile vuoto. Desideriamo che chi ci ha fatto un torto paghi le conseguenze della nostra tristezza, ma la sofferenza dell’altro non annullerà la nostra.
Lo sanno bene Agnese Moro, Giorgio Bazzega, Manlio Milani e Fiammetta Borsellino che hanno perso i loro cari per la spietata azione di altri. Non a caso si parla di “azioni” e non di persone, perché loro, per primi, hanno sottolineato quanto sia importante tenere separata la singola azione dall’interezza della persona. Qualunque azione una persona possa compiere – dice Agnese, figlia dell’ex presidente Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse- non potrà ledere la sua umanità. Non solo Agnese, come gli altri, accetta di incontrare i responsabili dell’assassinio del padre, ma dopo un lungo confronto ne diventerà addirittura amica. Le parole vittima o carnefice nel dialogo non esistono; esistono due persone che a modo loro hanno sofferto, c’è chi ha sbagliato e chi ne ha subito le conseguenze, ma la linea non è così netta come potremmo immaginare. Il desiderio di giustizia è ambivalente, quando dall’altra parte c’è una persona che sì, ha sbagliato, ma è pronta ad accogliere e condividere il dolore di una perdita di cui è stato responsabile. Così hanno fatto Adriana Faranda e Franco Bonisoli, ex militanti delle brigate rosse. Hanno sperimentato una forma di ascolto che spesso non viene data a chi è considerato colpevole; inoltre poter rispondere alle domande di chi ha subito il lutto ha permesso di rendere giustizia anche a loro.
Si parla di giustizia proprio perché permette di capire fino in fondo le motivazioni che hanno spinto una persona a compiere un certo tipo di azioni, interfacciandosi con qualcuno che, sebbene “dall’altra parte”, ha vissuto il dolore che più si avvicina empaticamente al tuo. Perché il dolore non è monopolizzabile e, proprio perché umano, deve essere accettato da entrambe le parti.
<<La giustizia riparativa viene vista molto spesso come un atto di finto buonismo, come se venisse messa una pietra sopra a ciò che è accaduto>> dice Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia, <<ma questo tipo di giustizia non toglie nulla, anzi permette di capire che c’è molto altro.>>. Lo afferma con tutta la sua convinzione, anche se lei quel dialogo non è mai riuscita ad averlo, con i responsabili della morte di suo padre. Per avere giustizia dobbiamo comprendere fino in fondo la rabbia, l’istinto di violenza che hanno portato a compiere certe azioni e, anche senza questo confronto, Fiammetta lo ha capito.
Il tema della giustizia riparativa è ancora molto spinoso, è un percorso difficile da iniziare ed intraprendere, e spesso la volontà di iniziare arriva dopo un lungo periodo di dolore e di desiderio di vendetta, come racconta Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia. Per anni ha vissuto nel suo dolore, senza permettere a nessuno di entrarci, per caso ha intrapreso questo percorso, pensava fosse l’ultima spiaggia. Eppure questo ultimo tentativo si è rivelato liberatorio.
Davanti a queste esperienze non si può che rimanere sorpresi, nonostante molte persone si credano in grado di criticare questo tipo di percorso, nessuno può realmente giudicare senza averlo prima vissuto. La punizione, la vendetta, radicate nella nostra ideologia, non sono abbastanza, serve altro. Serve arrivare alla base, al centro della questione; per ricordarci che non siamo solo ciò che facciamo. Tutti nella vita, che ci troviamo dalla parte di chi ha subito o chi ha agito, possiamo avere una seconda possibilità.
Marianna Reverberi 5B
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Foto di Mattia D’Annucci dal sito Parmateneo