Il silenzio assordante di Dio (Il settimo sigillo, Ingmar Bergman 1957)

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Antonius Block, il protagonista, è un crociato tornato da una guerra santa, al ritorno trova però la sua patria distrutta dalla miseria, dalla peste, dall’Uomo. Block è dubbioso, insicuro: è tornato dalla guerra, ha visto la morte, l’odio, ha fatto sacrifici e tornato in patria si accorge che Dio non lo ha premiato, anzi, gli ha mostrato un ulteriore scenario macabro, funebre. Uno scenario che esprime perfettamente il concetto della vanitas, ovvero la condizione effimera della vita.  Ed è allora che si chiede dove sia Dio in tutto questo, si chiede come mai continua a sentire la presenza di questo Essere nonostante non abbia prove della sua esistenza, ma purtroppo, o per fortuna, son domande troppo grandi per lui, e per noi tutti. Il film è basato sulla struttura del viaggio, la metafora più potente per raffigurare la condizione umana, la condizione dell’Uomo pellegrino, che continua a camminare alla ricerca di risposte, che forse non avrà mai. Però questo non ferma il nostro protagonista, lui vuole la Verità. Lui stesso infatti dice “Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? […] Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?”, aggiungerei: come un silenzio assordante. Block non accetta come dogma ciò gli è stato tramandato, vuole avere un pensiero proprio, vuole pensare per sé stesso, ma come sappiamo, pensare fa soffrire. Ad un certo punto però incontra la Morte, la quale darà all’eroe la possibilità di sopravvivere al suo freddo bacio giocando una partita a scacchi, e mi sento in grado di dire che questa sia una delle immagini più significative e più simboliche nella storia della settima arte. Durante la partita il nostro eroe pensa di poter batter la Morte, si sporca di hybris, di tracotanza, ma non molla. Però Claudio Chiaverotti nel Dylan Dog n.66 intitolato “Partita con la Morte”, esplicitamente ispirato a Bergman, ci ricorda la piccolezza dell’Uomo, dicendo “[…] …ma, in fondo, tutta la vita è un partita a scacchi con la morte…una partita già persa in partenza!”. Nell’ultima scena compare la Morte sopra una collina che balla, trascinandosi dietro l’eroe e la sua compagnia. È il trionfo della Morte.

scene-the-seventh-seal-ingmar-bergmanÈ la danza macabra, che balla su tutti noi. Questo film è di un importanza e di un fascino esemplare, non solo concettualmente, ma anche tecnicamente, infatti la maggior parte delle scene hanno inquadrature paragonabili a quadri, a opere d’arte. Un uso del bianco e nero che costituirà un modello per moltissimi registi successivi. Ci ha mostrato il periodo del medioevo, dove le persone si autoflagellavano per espiare i propri peccati, dove la fede era sempre minore e l’odio e l’egoismo sempre maggiore, dove i preti e i cittadini accusavano persone di essere possedute da Satana fino a convincerli di ciò. E ci ha donato per sempre l’immagine della nostra vita, piena di scelte, di mosse giuste o errate, che avranno conseguenze più o meno gravi, come un labirinto, dove ogni svolta può determinare la nostra salvezza o meno. Concludo invitando il lettore a guardare il film, nel caso non l’avesse fatto, o di riguardarlo comunque. Capisco non sia un cinepanettone tutto colorato e divertente, capisco non possa piacere il bianco e nero, in verità non lo capisco, insomma, son colori come altri, però provate a sorvolare la forma, che è comunque favolosa, e a concentrarvi sul contenuto.

 

Riccardo Guareschi

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23/01/2020

 

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