Scorriamo in modo ossessivo la home di Instagram ogni giorno. Cerchiamo inesorabilmente qualcosa che ci identifichi, ci ispiri, una bella fotografia o una frase da poter condividere in un post. A prescindere dal nostro stato d’animo ieri, oggi, domani, la risposta la troveremo in quella poesia di Gio Evan che è proprio adatta all’occasione o forse nell’ultima canzone di Gazzelle, c’è quel verso che proprio non ci esce dalla testa o in quella frecciatina scritta nel 2015 da uno sconosciuto su Tumblr.
Avere diciassette anni nel 2020 significa provare vergogna nel rispondere alla domanda “come stai?”, dover cercare esempi nella vita di altri per rifiutarsi di affrontare quell’ intrepido viaggio alla ricerca dell’aggettivo perfetto. Forse amiamo l’idea di essere capiti all’istante da un aforisma o forse lo troviamo consolatorio, imbarazza così tanto l’idea di parlare? Trovo incredibile la facilità con cui la nostra mente elabori più facilmente un commento inadeguato piuttosto che un complimento sincero.
All’età di sei anni impariamo a leggere e a scrivere, a dieci siamo in grado di esprimere una preferenza e di giustificarla, durante il periodo delle medie iniziamo a comprendere la realtà e alle superiori dovremmo aver sviluppato un senso critico tale da riuscire a tenere un discorso ben argomentato. Tutto questo accade, ma se a un bambino di sei anni chiediamo di parlare di sé proverà meno imbarazzo di un ragazzo di diciassette nonostante conosca meno dell’altro.
Utilizzo i social network ed una delle cose che mi infastidisce maggiormente è leggere sotto i post, nelle storie e negli stati citazioni da ragazzi che manifestano i propri sentimenti: è più frequente trovare frasi soffocanti e angoscianti che a leggerle vorresti capire o essere d’aiuto, ma per quanto tu possa interessarti alla domanda “come stai?” la risposta sarà sempre e solo una: “Tutto bene, grazie.”
Troviamo il coraggio di parlare.
Matilde Tragni