A mezzogiorno esatto del 3 marzo 2005 mi fu data l’esperienza di intuire il terrore che per milioni di anni dovettero subire i nostri antenati ominidi nel difendersi da animali feroci. Mi trovavo davanti ad una gabbia nello zoo di San Pietroburgo. Un giovane leone africano vi era stato proditoriamente rinchiuso pochi giorni prima. Si muoveva nervosamente, avanti e indietro, avanti e indietro senza fermarsi, costretto nei pochi metri quadri di quell’angusta prigione, di certo non dimentico della sua sconfinata savana. Ad un certo punto si fermò sul fondo della gabbia. Mi sporsi fino a ridosso delle sbarre ed ebbi l’ardire di fissarlo negli occhi; occhi che parevano quelli di “Caron dimonio dagli occhi di brace”. Fu solo un istante; Il leone si scagliò con furia inaudita contro le sbarre, come per attaccarmi,. Spalancò le fauci e.. rooaaarrr… mi lanciò addosso tutta la sua rabbia di giovane schiavo; un ruggito così potente che, indietraggiando di colpo, atterrito e impotente, “caddi come corpo morto cade”. In Africa c’è un proverbio: “Chi ha sentito il ruggito del leone, corre più forte”.
Verissimo.
Anche a raccontarla seriamente – questa storia – non la crederebbe proprio nessuno. Per fortuna mia moglie fu testimone del fatto ed è lei che ne tiene vivo il ricordo, ironizzando sulle mie frequenti disavventure (o, più volgarmente, sulla mia impareggiabile sfiga).