Anche a raccontarla seriamente – questa storia – non la crederebbe proprio nessuno. Per fortuna mia moglie fu testimone del fatto ed è lei che ne tiene vivo il ricordo, ironizzando sulle mie frequenti disavventure (o, più volgarmente, sulla mia impareggiabile sfiga).
Nell’estate di molti chili fa, eccomi in cammino, assieme alla mia consorte, nel Parco delle Foreste Casentinesi. Per una delle tappe del percorso avevamo prenotato una notte in un rifugio gestito dalla sede del CAI di Stia (Arezzo). Dopo una bella serata con alcuni soci del CAI, scopriamo che avremmo dormito completamente soli nel rifugio e, quel che è peggio, senza energia elettrica. Muniti di una piletta saliamo al piano superiore. Ci sono due stanze: un ripostiglio di due metri per due e una grande camerata, senza mobili né sedie; solo cinque o sei letti singoli che, illuminati da quell’esile fascio di luce, sembrano ambigue carcasse. Che silenzio! Chiudiamo le finestre. Stendiamo i sacchi a pelo. Che silenzio! Proviamo a dormire. Maria dorme. Io no. Ho uno strano presagio. Che buio, che silenzio. Mi addormento anch’io. Ad un tratto avverto un peso sui piedi. Mi sveglio di soprassalto. C***o, qualcosa o qualcuno mi sta camminando sopra le gambeeee!
– Chi c’è? – Urlo.
Maria si sveglia e grida: – Chi c’è cosa? Stai sognando o cosa? –
– Accendi quella pila!- Grido terrorizzato, – Qualcuno mi ha camminato sulle gambe!-
Sentiamo entrambi la corsa di un animale sul pavimento di legno. Punto la luce di qui e di là: sui letti, sulle pareti, ed ecco, sull’incrocio delle travi, spuntare il muso della bestia.
Maria esclama: – Guardalo bene, è un procione! –
Non faccio neanche in tempo a guardarlo che fa un balzo e corre dritto dritto nel ripostiglio.
Porca boia, adesa at’scanti mi, al me procione.
Faccio anch’io un balzo e chiudo la porta del ripostiglio. Poi spingo un letto contro la porta: – Toh, al me procione, reva la porta adesa! –
Mia moglie, totalmente ignara del mio spavento (roba da caghers adoss da la paura), comincia la sua lezione faunistica sul procione americano, chiedendosi come mai si trova in questo ambiente. – Se vive in America – dico io, riguadagnando per un istante l’italiano, ma perdendolo subito, scosso di nuovo da fremiti incontrollabili – co fal chi, col maledet nimel propria sul me lèt??? –
Non si dorme. Per tre ore almeno il procione raspa contro la porta. Poi, silenzio. All’alba, finalmente, luce. Apriamo con timore la porta del ripostiglio. Il procione ha aperto le persiane e se ne è andato, complice un robusto ramo di faggio prossimo alla finestra.
Nessuno osi parlarmi dell’orsetto lavatore né del suo bel musetto. Per me, fu solo… paura bestiale!
Luigi Lanzi