Aprire Twitter e poi Instagram è diventata oggi un’ azione abituale. Non possiamo perdere gli ultimi aggiornamenti di vita di persone a noi troppo lontane o sconosciute. Cosa ci rende tanto attratti dalle falsità che ci compaiono sullo schermo del cellulare? Non lo so. Quale forza magnetica ci spinge ad aprire i nostri social per osservare stories di vita che ritraggono una marea di falsità? Non so nemmeno questo.
Nel teatro di Instagram, tutti recitiamo una parte. Quello che passa dal profilo social di qualcuno è spesso una semplice messa in scena, la punta di un iceberg, il racconto di ciò che non siamo e, forse, vorremmo essere. Nei brevi spazi di presentazione che i social ci forniscono, come sostiene Alessandro D’Avenia in un suo articolo, tendiamo a scrivere informazioni scarse, magari il proprio nome accompagnato da una frase di una canzone, ed eviti invece di raccontare quali siano le loro esperienze di vita più significative, le loro tristezze, le loro paure.
Effettivamente, perché condividere con sconosciuti le più intime paure che attanagliano il nostro essere e la notte ci tengono svegli? È più facile scrivere il nostro nome ed il nostro cognome, indicare la città da cui veniamo e la scuola che facciamo, e magari fare presente a tutti che il nostro sport preferito è il calcio. Il professor D’Avenia chiedendo ai suoi alunni di parlare di loro stessi in un tema ha comunque notato come sui fogli bianchi le parole fuoriescano una dopo l’altra. È semplice mania di protagonismo? O forse invece è bello, ogni tanto, calare le maschere che indossiamo costantemente sui social?
Su internet invece mettersi del tutto a nudo davanti alle proprie insicurezze è diventato impossibile e sotto certi aspetti forse è meglio così.
Diventa quindi normale tenersi per sé gli avvenimenti più significativi della propria vita, i sentimenti più profondi, perché la paura di essere visti come paladini di una battaglia che agli occhi di altri non è altro che una fiaba, è concreta, e ci tormenta. Sì, io sono empatica, ma posso aspettarmi che sia lo stesso anche per te?
No, certo che no, dunque i motivi per condividere ciò che di più privato abbiamo crollano improvvisamente.
Riassumersi in poche parole è impossibile, la capacità di sintesi è diventata una dote invidiabile, dunque nel poco spazio che Instagram ci fornisce per presentarci tendiamo ad aggiungere elementi inesistenti per renderci più interessanti, per avere un follower in più, per sentirci compiaciuti. Il terrore più grande che condividiamo è che le maschere che indossiamo con tanta cura, prima o poi, cadano, rivelando ad un pubblico che sa essere più o meno grande una verità che per loro non era mai esistita.
La vita sì, è una trilogia, che narra dell’amore provato, del male vissuto e delle scelte compiute, ma è davvero un male che non venga condivisa nei 280 caratteri di Twitter o nello spazio di presentazione fornitoci da ogni social?
Nel momento in cui si diventa schiavi della tecnologia forse nascondersi può diventare motivo di anticonformismo.