William Stoner si consacra alla letteratura quando è un giovane studente dell’università del Missouri: di fronte alla bellezza di un sonetto di Shakespeare, comprende che il mondo letterario è una realtà in cui può trovare un’identità e piena consapevolezza di sé. Il percorso si concretizzerà poi con la professione di letterato medievale e lo porterà ad incarnare una filosofia di vita del tutto originale. Stoner concepisce la vita e i suoi eventi come un processo naturale ineluttabile a cui non ci si può opporre; le difficoltà relazionali che manifesta sono compensate da una totale assenza di risentimento nei confronti del mondo. Accetta le insoddisfazioni e gli insuccessi, un matrimonio fallito e un rapporto drammatico con l’unica figlia, perché è un uomo consapevole del ciclo naturale della vita e della finitezza della realtà, che vive le piccole gioie del presente in un’ottica oraziana. In punto di morte prematura “era se stesso, e sapeva cosa era stato”. Ecco l’ultimo messaggio dell’opera: il raggiungimento di una felicità interiore in armonia con il proprio spirito, per quello che si è voluti essere durante le propria vita.Una vita esteriore “piatta e desolata” che valorizza l’interiorità di un uomo sempre coerente con se stesso. (Mattia Sansone)
E’ William Stoner, imperturbabile come un ciottolo di roccia, il protagonista assoluto del romanzo: il finto “perdente”, lo sconfitto antieroico per eccellenza, che affronta l’esistenza con un passivo e arrendevole straniamento. Dalla mediocrità dell’agio agreste alla Columbia State University, attraversando una vita coniugale deludente, per poi, infine, giungere a una morte senza troppo rumore: è il trionfo del banale, del non-straordinario, a colpire profondamente il lettore.Si tratta, cioè, di una continua analogia tra lo scorrere incessante della routine odierna e le voragini di noia, nonché le vette dello spoglio “niente”, subite, ma anche create, da Stoner stesso. La vera chiave di lettura dell’opera è sorprendente, innovativa, poiché distrugge le mete ambiziose del self-made man americano, dell’uomo che ha vinto e raggiunge il monopolio del potere su se stesso, a favore della struggente emozione di una placida normalità, senza moto, senza picchi nè mancanze: Stoner è un cavaliere fuori forma, errante tra amori perduti e vecchi libri impolverati. (Benassi Elisa)
La storia di Wiliam Stoner è quella della tenace ricerca della felicità di un uomo comune. È ciò che questa opera vuole insegnarci: la strada per la felicità si trova nell’accettare e nell’amare le cose e le situazioni per come sono e si separa in due percorsi. Il primo è quello della consapevolezza della fine delle cose: è necessario imparare ad amare le cose nonostante, o meglio, soprattutto perché cogliamo i segni di una loro futura disintegrazione. È così che W. Stoner, con la tenacia testimoniata dal suo cognome (“pietra” in italiano), ama il lavoro, la figlia e l’amante Katherine anche se consapevole della loro fine prossima, in una sorta di “carpe diem” oraziano trasposto nelle parole del famoso sonetto di Shakespeare dedicato all’autunno. Il secondo è quello dell’accettazione di sé stessi: capire chi si è e chi si è stati ed amarsi senza aspettarsi nulla di più. E così Stoner, sul letto di morte, rivede tutta la sua vita e la accetta senza rimpianti, senza ulteriori aspettative, e la sua tenace ricerca della felicità, che ha visto alternarsi per tutta la narrazione autunno e inverno, si conclude “a primavera inoltrata o inizio estate, ma forse più inizio estate, a giudicare dall’aspetto delle cose” ( Matteo Mannis).
Foto: Street art sul muro del Liceo Linguistico Marconi, Parma