Nulla è sì duro e insensibile,
e imbevuto di rabbia
cui la musica, almeno nell’ascolto,
non riesca a mutare la natura.
W.Shakespeare
Quello che mi è successo al cinema qualche giorno fa mi ha fatto molto pensare. Dopo la proiezione di un film dal titolo “Fuocoammare” sulla terribile storia degli immigrati, si è generata una discussione tra quanti pensano che siano da accogliere e quanti, al contrario, ritengono che siano da rimandare al loro Paese.
Non è tanto la cosa in sé che mi ha preoccupato, quanto il fatto di vedere il numero di coetanei che applaudiva davanti a chi la pensava diversamente da me.
È stata una doccia gelata. Mi sono chiesta come possa un ragazzo della mia età pensare che individuo che ha come unica “colpa” quella di essere nato in un posto in cui ci sono guerre o in cui non esiste la democrazia, possa non avere gli stessi nostri diritti. Che cosa ci rende diversi? Il colore della pelle? La latitudine di nascita? La religione? L’epoca storica in cui i nostri genitori ci hanno messo al mondo? Che cosa ci rende diversi?
E che cosa l’immigrato di oggi rende diverso da un figlio dei nostri immigrati di qualche tempo fa? Noi siamo stati un popolo di emigranti: perché oggi non ce lo ricordiamo? Che cosa avrebbe provato il ragazzo italiano di allora sapendo che molti suoi coetanei americani avrebbero voluto rimandarlo in Italia? Lo so che il razzismo è sempre esistito e lo so che la vita degli immigrati non è mai stata facile in nessun Paese del mondo, ma che cosa spinge un ragazzo a pensare di alzare dei muri, di chiudere le frontiere, di tener fuori un suo coetaneo? Ciò per me è inconcepibile, non riesco a farmene una ragione ritenendo che sia tutta una questione di paura. Esiste qualcuno che ha interesse a farci avere paura, esiste qualcuno che vuole un mondo “imbevuto di rabbia” per dirla con Shakespeare. L’unico modo per portare un ragazzo della mia età a pensare di poter avere più diritti di un altro è la paura. La paura del diverso, la paura della perdita dei privilegi, la paura di dover dividere la scarsità. Eppure da una ricerca che è stata diffusa pochi giorni fa da Oxfam Italia alla vigilia del World Economic Forum di Davos, dove si sono riuniti i potenti del Mondo, emerge che “85 super ricchi possiedono l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione mondiale. (…) Circa metà della ricchezza è detenuta dall’1% della popolazione mondiale.”
Come è possibile che la ricchezza sia così tanto concentrata nelle mani di così pochi?
Ecco allora che forse la musica può aiutare a “mutare la natura” delle cose! Ora capisco perché mi piace la musica.
Quando canto sento il mio corpo in sintonia con le note del mondo e allora tutto si chiarisce. Il mondo diventa più bello e io mi sento di poter smuovere le montagne. Mi sento come un tempo i neri che si sono ribellati alla schiavitù, intonando canzoni di protesta o, per stare più vicini a noi, come i nostri bisnonni che hanno intonato i canti della Resistenza per denunciare l’invasione tedesca o invocare la liberazione del nostro Paese. Mi sento come loro e mi chiedo se noi, giovani musicisti, non possiamo utilizzare la musica come strumento di aggregazione e integrazione, come linguaggio universale di pace. Per creare un unico popolo fatto di giovani di ogni colore, di ogni latitudine e di ogni religione, uniti insieme nelle strade digitali del web e dei social network, gli unici veri Paesi rimasti oggi senza muri e senza confini. Sulle ali del digitale sogno di intonare un canto di protesta e di unione che unisca in un’unica musica tutti coloro che vogliono un modo diverso, fatto di ponti, non di muri, un mondo senza confini, un mondo dove la metà della ricchezza del mondo sia meglio distribuita e dove non vinca la paura, non vinca la rabbia, ma vinca la pace e l’accoglienza, indipendentemente dal colore della pelle, della religione e della latitudine in cui nasciamo o viviamo. Un mondo che parla sempre più un’unica lingua, l’inglese universale, e che nella musica possa trovare una nuova forma di aggregazione globale che faccia superare la paura e indirizzi la rabbia non contro il coetaneo o l’immigrato, ma contro il potente che non è in grado di appianare l’ingiustizia, contro il potente che cerca di farci vivere nella paura. “E in un mondo che deve – e sempre più dovrà – affrontare i flussi migratori, anche per ragioni economiche, la società può usufruire della musica come strumento di aggregazione e integrazione tra le diverse culture?” si chiede la psicologa Laura Ravioli nel saggio pubblicato online da cui ho tratto la bellissima citazione di Shakespeare. La mia risposta è sì. Sogno di volare sulle ali del digitale, intonando la mia canzone di pace e di uguaglianza. E spero che la musica, ancora, come altre volte in passato, curi le disuguaglianze, connettendo noi coetanei di tutto il mondo, di tutte le razze, di tutte le religioni e di ogni colore in un unico linguaggio universale, in un unico canto di pace e di accoglienza perché anche io credo, come diceva Shakespeare, che “Nulla è sì duro e insensibile, e imbevuto di rabbia cui la musica, almeno nell’ascolto, non riesca a mutare la natura.”
Carlotta Sarina 1M