Guardare le foto di classe, soprattutto se a distanza di anni, è un’operazione che fa bene all’autostima.
C’è sempre una via d’uscita, sembra sussurrarti attraverso la pellicola ingiallita la tua faccia da adolescente, quando il buio della tua vita sociale è il più totale, i tuoi compagni sembrano alieni, e tu incompreso inadatto incapace, esteticamente devastato da insicurezze, brufoli, tentativi confusi di make-up, felpe di tre taglie più grandi, jeans di tre taglie più piccole. La luce c’è.
La foto di classe, scoperta in un cassetto a distanza di anni, riporta, appunto, alla luce non solo la tua faccia ma anche quelle degli altri: il cretino che fa le corna, la bellona che occhieggia all’inquadratura, il gruppetto dei bulletti, pettoruti e imbronciati, la timida, la procace, l’occhialuto, le amiche inseparabili che si tengono per mano.
Certifica ufficialmente che è possibile mettere insieme 25/30 individui (adolescenti!), gomito a gomito, e farne una classe, un gruppo, con le sue regole, i suoi ricordi condivisi (gite, feste e supplenti), riti scaramantici, scene di pianto, di odio e ovviamente d’ amore, una classe, insomma. Un microcosmo irripetibile e compiuto dove ognuno ha un posto – un banco – e la sua mancanza pesa (infatti viene annotata sul registro).
Sono le foto, anno dopo anno, a scandire la mutazione: le amiche non sono più vicine, lo smilzo è sbocciato come un papavero, la bellona si è appannata. Gli occhi hanno una luce diversa, meno spauriti, meno incoscienti. Via le piume, fuori le ali.
Passano gli anni e l’unica certezza è il cretino che fa le corna, ai soliti ignari, ridendosela fra sé.
Maria Borelli
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