Gianluca Vialli è morto.
Di cancro al pancreas.
Per chi è nato e cresciuto nell’altro millennio e ha coltivato una fede sportiva in bianco e nero, è stato l’ultimo capitano che ha sollevato la Champions League per la Juventus.
Per le generazioni del nuovo secolo è quell’ex calciatore che alla finale dell’ultimo Europeo di calcio è stato immortalato in un commosso abbraccio con l’ex collega e ora CT della Nazionale Roberto Mancini, subito dopo il trionfo.
A cadavere ancora caldo – è il caso di dirlo – sui media tradizionali e sui social, oltre al tradizionale omaggio al campione, è purtroppo iniziato un tragico campionato della retorica e dell’antiretorica sulla sua esperienza di malato.
Da un lato i sostenitori dell’eroismo insito nella battaglia contro il cancro – specie quello che ha colpito Vialli, uno dei più aggressivi – con uno spreco di metafore belliche ed epiche hanno mitizzato e proiettato nei cieli della letteratura una delle esperienze più forti e intime che può affrontare un essere umano.
Dall’altra malati e parenti dei malati – i primi, che magari non ce la faranno, e i secondi, che hanno assistito coloro che non ce l’hanno fatta – hanno stigmatizzato questa postura eroica nell’affrontare il cancro che indurrebbe molti frequentatori di social a pensare che si possa combattere e sconfiggere l’ospite, inatteso e indesiderabile, prevalentemente con la forza d’animo: con il prevedibile corollario che chi muore automaticamente diventa un perdente.
Ho la presunzione di avanzare sommessamente una terza via, per me decisamente più umana: sottrarre alle bolle social e restituire ai nuclei sociali più o meno allargati – parenti stretti, amici, compagni di strada nella vita – la cura e l’accompagnamento del malato dovunque la forza della malattia e la Provvidenza (per chi ci crede) o il destino o il caso lo stia spingendo.
In questi bellissimi e disperatissimi anni Duemila i media e i social, nel progressivo e generale dissolvimento di fedi e ideologie forti, hanno iniziato a rappresentare quella struttura portante esterna alla nostra vita – un esoscheletro appunto – al quale si fa immancabilmente riferimento per le piccole e grandi gioie (o disgrazie) che ci accadono.
In tal modo la forza (o la debolezza) per affrontare i nostri problemi esistenziali viene sempre più delegata all’amplificatore del medium, più o meno tradizionale che sia.
Lungi da me criticare il modo con cui qualche malato oncologico, sia famoso come Vialli o Fedez od oscuro e anonimo come molti instagrammer e twitterer, ritenga di affrontare la prova più ardua condividendo con migliaia di follower le proprie esperienze e misurando in like il livello della propria forza interiore; e, specularmente, mi guardo bene dal condannare chi invoca un misericordioso silenzio dai media per non aggravare l’avvilimento di chi fatica, o non riesce, a uscire dal tunnel.
Ma tutte e due le categorie, purtroppo, sembrano condividere quella che, a mio modo di vedere, costituisce la vera malattia del nostro tempo: cercare incoraggiamento o lamentare l’invasività di un esoscheletro social che non fa altro che misurare l’indebolimento ferale dei rapporti interpersonali.
Magari è il caso di tornare a imparare la grammatica dell’umanità: e regaliamoci – tra malati e sani – uno sguardo negli occhi, una parola, un sorriso o un abbraccio, certo assai più caldo e utile di un distratto e fintamente pietoso click sulla tastiera del pc o dello smartphone.
Prof. Massimo Carloni
foto dal Corriere della sera