Invochiamo Teti e Nettuno – disse l’amico Gianriccardo – spronandomi ad entrare nel fiume. Fin da ragazzo – continuò come in estasi – ho desiderato guadare a nuoto il Ticino, prova di virile cimento, foss’anche a prezzo della vita, miserabile sacrificio per gli dèi. Replicai sottovoce, ma con fermezza, che avrei preferito sopravvivere…
Chissà perché indugiavo sulla figura di Sancho Panza di fronte al folle slancio del prode Quijote. Avrei voluto ammonirlo sui pericoli della corrente e della possibile presenza di vortici, ma l’amico, già in un altrove dell’anima, mi esortava: – Io, io…io; suvvia, gettiamo il nostro miserabile “io” nelle braccia del divino elemento… Entriamo in acqua, ordunque. (Debbo riconoscere che il motivo per cui condividevo quell’insensata avventura era la bellezza delle sue parole).
L’impresa natatoria ebbe inizio. Dopo solo dieci bracciate o poco più la corrente ci aveva già sospinti parecchio avanti, ben oltre ogni previsione. Nell’acqua torbida, non riuscivo a distinguere tutte le schifezze che sentivo sfiorarmi sul corpo: alghe, rami, rifiuti, invisibili creature pizzicanti. Dopo quindici minuti (parve un giorno) eccoci in mezzo al fiume. Intuendo la mia paura di finire in un gorgo (o nel Maelström narrato da Poe), Gianriccardo citò Virgilio a gran voce: “Rari nantes in gurgite vasto“!
Fummo all’altra riva, alfine. Un sorriso beato disegnava il viso dell’amico mentre io scuotevo la testa: – Ragass, che lavor… che lavor da stupid. E al né gnan f’nì. A ghè da tornèr indré. Gianriccardo ebbe la brillante idea di farsi trascinare dalla corrente. Il nuoto fu più agevole, certo, ma una volta guadagnata la riva, ci ritrovammo 2 km più a valle rispetto al punto di partenza. Gianriccardo si espresse in tono trionfale: – Orsù, l’impresa è compiuta! Ma io pensai: – Mèi pù.
Luigi Lanzi
fotografia di Alessandro Vecchi