Emma camminava a passo tranquillo su una delle tante spiagge pugliesi del Gargano, ora fissando i bambini giocare in mare, ora voltandosi verso le donne sdraiate sotto il sole tentando di bearsi dei suoi raggi per poter mostrare la loro abbronzatura una volta rientrate in città.
Effettivamente prendere un po’ di colore non avrebbe fatto male neppure a lei, ma la donna era da sempre stata molto preoccupata dall’eventualità di potersi scottare, dunque ogni volta che si ritrovava a dover abbandonare la protezione fornitale dall’ombrellone, era meticolosa la cura che usava per coprirsi braccia, viso e gambe con la crema solare.
Passeggiava sulla riva osservando sulla sabbia scura tutto ciò che le onde vi avevano depositato ogni volta che vi si erano infrante, dunque sassolini, frammenti di gusci di animali, piccole conchiglie.
Il paesaggio marino della Puglia l’aveva sempre affascinata, erano anni che spendeva lì l’intero mese di luglio, anche perché la sua Milano durante quel periodo diventava invivibile. Era pieno di turisti dovunque, tutti affascinati dal Duomo o forse solo vogliosi di spendere i propri soldi nei numerosi negozi del centro, ma dall’altra parte non erano pochi i cittadini che se ne andavano volentieri a spendere le loro vacanze altrove.
C’era un contrasto talmente netto tra la sua città ed il paesino nel quale Emma si trovava, che era quasi impressionante. La donna era incantata dalle luci serali e notturne di quel posto, amava l’aria pulita e profumata di salsedine che si respirava in riva al mare, per non parlare poi del calore che si poteva avvertire dovunque tra la gente, in così forte distacco con il grigiore di Milano. Il caldo asfissiante e la cappa di smog che coprivano la città, poi, erano da diversi anni diventati per lei insostenibili, dunque staccare almeno per un mese da ciò rappresentava per Emma il massimo della felicità.
La felicità. Ma cos’era alla fine, la felicità?
Spesso si era posta quell’interrogativo senza mai riuscire a darsi una vera e propria risposta, preferendo pensare che alla fine un vero ed unico responso non potesse esistere, anche perché quell’argomento era talmente soggettivo che sarebbe stato a parer suo sbagliato sforzarsi per trovare una soluzione.
Lei era felice quando le capitava che i suoi figli la venissero a trovare, quando i suoi nipotini le portavano un po’ di gioia in casa, quando poteva recarsi al mare e spendere un po’ di tempo lontano dal caos cittadino, ma di certo questa risposta non poteva essere la stessa per chiunque altro.
Emma sollevò con la punta dell’alluce un po’ di sabbia bagnata, come a volersi distogliere da quei pensieri. Non le piaceva porsi questo tipo di quesiti, non sapeva nemmeno come era arrivata a formularli: si trattava di discorsi che sfociavano nel filosofico e lei non amava quel campo di pensiero.
Lanciò uno sguardo all’orologio che aveva sul polso destro, segnava le cinque in punto. La donna alzò gli occhi verso la costa e decise che se avesse proseguito la sua passeggiata la cosa avrebbe solo potuto giovarle, dunque allungò quasi d’impulso il passo e proseguì.
Emma stava contando con lo sguardo le file di ombrelloni gialli e blu, quando si accorse di essere giunta all’ultimo lido attrezzato della costa: da lì in poi iniziava la parte di spiaggia libera. Solitamente arrivata in quel punto, che significava aver camminato veramente a lungo, la donna si voltava e tornava indietro. Era una tipa abitudinaria lei, aveva sempre fatto così, ma quel pomeriggio forse spinta dalla voglia di continuare a camminare o forse dalla curiosità di sapere cosa ci fosse oltre quell’ultimo lido attrezzato, decise di proseguire.
Camminò ancora a lungo, abbastanza delusa dal rendersi conto che non vi fosse nulla di speciale se non ombrelloni piantati nella sabbia in modo disordinato, ma comunque decisa a procedere. Si limitò ad apprezzare la bellezza del mare in certi punti svuotato da tutta la massa di gente tipica delle spiagge attrezzate, e talvolta ad osservare il cielo azzurro privo di nuvole.
Emma capì di essersi spinta veramente lontano, quando notò un gruppo di uomini seduti sulla sabbia a dialogare con voce bassa, ognuno dietro ad un telo bianco sul quale vi erano poggiate in modo ordinato scarpe, borse, collane, cinture. La donna si ricordò di aver sentito che verso il tardo pomeriggio tutti gli uomini che durante il giorno facevano avanti e indietro per la costa tentando di vendere qualcosa e guadagnare qualche soldo, si trovassero nella parte più estrema della spiaggia, forse per stare insieme, forse per altri affari più loschi. Non credeva del tutto a quel vociferare, ma camminando si rese conto che in quella parte di spiaggia vi erano solo ragazzi africani con le loro borse di plastica contenenti scarpe e le altre cose che vendevano.
Emma per un attimo pensò di tornare indietro: non c’era nulla più da vedere né tantomeno le pareva sicuro stare in quella zona.
Nel senso, lei non era razzista, ma la sua presenza in mezzo a quella gente la faceva sentire a disagio.
“Chissà quante altre persone la pensano come me” si domandò per un attimo.
Allora forse smossa dalla consapevolezza dell’odio ingiustificato che molte sue amiche provavano verso quei ragazzi, decise di proseguire. Non voleva, allontanandosi da lì, diventare esattamente come loro.
Mentre camminava allora, decise di osservare in modo più discreto possibile ciò che si presentava alla sua sinistra.
C’era veramente tanta gente, non erano solo uomini ma anche tante donne e soprattutto i loro bambini, che la fissavano camminare in quella parte di spiaggia probabilmente occupata solo da loro.
Avevano tutti una carnagione scurissima, le donne portavano sulla testa un cesto e gli uomini controllavano le loro cose, mentre i bambini stavano seduti e zitti. Emma li guardò: erano magri ed avevano le guance scavate. Ad occhio erano tutti di un’età compresa tra i due e i dieci anni e vedendoli la donna sentì una stretta al cuore.
Si respirava la povertà ad ogni metro in più che proseguiva, si sentiva osservata con occhio implorante di aiuto.
La donna prese un ampio sospiro e decise di voltarsi e tornare indietro, quella vista le faceva male.
Non aveva davvero mai pensato alla persona che ci fosse dietro all’uomo che vendeva i costumi, a quello che vendeva le scarpe, i braccialetti. Non poteva di certo immaginare che dietro di loro si nascondesse una tale povertà.
Mentre camminava per tornare al suo ombrellone, Emma si pose una sola domanda: per quei bambini, costretti a seguire sotto il caldo la madre, a camminare per chilometri interi ogni giorno, a tentare di impietosire qualche persona per procurarsi qualche soldo per mangiare, che cos’era la felicità?
La donna non riuscì a darsi risposta, né volle sforzarsi di provare a trovarne una: si era sempre concentrata sulla sua felicità che mai si era interrogata su quella degli altri e decise che forse era meglio così.
Emma percorse veloce il tratto di spiaggia occupata da quella povera gente, occhi discreti che la scrutavano mentre lei tentava di apparire il meno visibile possibile.
Cos’era di preciso la felicità per lei e per loro alla fine non lo sapeva, decise solo che non avrebbe nemmeno voluto saperlo: ignorare le cose è meglio che guardarle in faccia, pensò ignobilmente.
Decise di dimenticarsi di quella vicenda e che da quel tratto di costa non ci sarebbe più passata; mai avrebbe potuto immaginare quanto forti potessero apparirle agli occhi gli sguardi dei bambini che muti le chiedevano un aiuto, a lei e a mille altri così concentrati sui propri averi e sul possedere altro, tanto, ancora. Cos’erano per lei un pezzo di pane, una bottiglia d’acqua, tre euro, e cos’erano per loro? Come si poteva paragonare il suo concetto di felicità con il loro? Emma realizzò, con amara inquietudine, che non esisteva davvero nulla che non si potesse leggere in chiave retorica, che concetto spaventoso per una donna come lei, abituata al tutto fin dalla nascita. Ma ancora una volta, che cos’era il tutto?
Scosse la testa, come se quella sola azione potesse distoglierla dai suoi pensieri che ormai si erano fatti opprimenti, sospirò amara e tornò a fissare il mare.
Eleonora Gazza, 4^D