Nell’ormai lontano novembre del 2010 un bambino di otto anni si apprestava a cominciare il suo primo allenamento di basket, sport a lui del tutto ignoto. Indossava una maglietta bianca che sulle spalle aveva scritto Bryant numero 8; il bambino non sapeva chi fosse questo Bryant, sapeva solo che, come gli aveva detto il padre, era un forte giocatore di basket e lui andava molto fiero della sua maglietta. Quel bambino ero io.
Quando fui più grande incominciai a seguire il basket giocato e mi guardavo sempre gli highlights delle partite di Kobe, mi innamorai del suo gioco e ogni volta che scendevo in campo con la palla da basket in mano provavo ad imitarlo nei movimenti, nei tiri, nei passaggi, in tutto. Kobe divenne per me un esempio da seguire e sognavo anch’io un giorno di poter calcare i grandi parquet dell’NBA. Il poster di Kobe dominava la mia camera, con quei magnifici colori giallo e viola dei Los Angeles Lakers per cui Kobe giocò per ben venti stagioni, senza mai cambiare squadra.
In queste venti stagioni Kobe mise a referto 33646 punti, giocò 1346 partite, vinse ben cinque volte il titolo NBA, una volta il titolo di MVP (most valuable player), e due volte il titolo di MVP delle finali e partecipò ben 18 volte all’All Star Game. E questo è solo un assaggio di quello che fece Kobe in campo infatti non a caso è definito, a detta di tutti, uno dei migliori di sempre.
Kobe era un grand’uomo non solo in campo ma anche fuori: tutto ciò che ha ottenuto era frutto di un duro lavoro, di sacrifici e di voglia di fare. Ha dato vita alla Mamba Mentality, una filosofia di vita a cui migliaia di ragazzini di tutto il mondo si ispirano.
Il 29 novembre 2015 annuncia il suo ritiro dal basket con una commovente lettera intitolata “Dear Basketball” e per tutta la stagione 2015-2016 i vari palazzetti degli Stati Uniti lo hanno salutato con cerimonie magnifiche per evidenziare la grandezza della persona che era. L’anno successivo realizzò un cortometraggio su questa lettera e vinse l’Oscar come miglior cortometraggio d’animazione.
Il 26 Gennaio 2020 nel giro di pochi minuti si diffuse la notizia che nessuno voleva sentire: Kobe Bryant, la sua seconda figlia Gianna-Maria Onore e altre sette persone sono decedute in un incidente in elicottero mentre si recavano all’allenamento della figlia di cui Kobe era allenatore.
Quando venni a sapere la notizia la mia prima reazione furono le lacrime: tante lacrime, amare, per il resto della serata, e con me milioni di persone nel mondo piangevano e ricordavano ciò che è stato Kobe per tutti noi e ciò che sempre resterà: non solo un grande sportivo ma anche un grande uomo a cui il destino, a soli quarantuno anni, ha riservato una triste fine.
In NBA nelle partite giocate quella sera si sono lasciati scorrere i primi 24 secondi di gioco, infatti il 24 e l’8 sono i numeri storici di Kobe Bryant, in segno di rispetto. Inoltre la Federazione Italiana Pallacanestro ha reso ufficiale un comunicato per cui durante tutta la settimana si sarebbe dovuto fare un minuto di silenzio proprio per Kobe.
Il lunedì di quella settimana proprio quel bambino con il numero otto sulle spalle, è sceso in campo e ha fatto il riscaldamento con la maglia Bryant 24 indosso, ha aspettato quel lungo minuto in silenzio ripensando a cosa è per lui Kobe Bryant e ha giocato per Kobe, lo ha fatto per lui, lo ha ricordato ad ogni canestro segnato. Kobe Bryant ci ha lasciato, ma non è morto, è ancora vivo nei cuori di ognuno di noi e per sempre lo resterà.
Tommaso Neri