“Se voi foste stati i giudici che hanno condannato una persona innocente, come vi sentireste?”
Questo è l’appello di Herman Lindsey, americano accusato ingiustamente di omicidio premeditato, rinchiuso nel braccio della morte per tre lunghi anni ed ora uomo libero. Il giorno 30 novembre lo abbiamo incontrato, insieme a 720 alunni delle scuole superiori, durante un’interessante conferenza organizzata dalla comunità di s. Egidio e patrocinata dal Comune di Parma per sensibilizzare sul tema della pena di morte.
Con risolutezza, simpatia ed un briciolo di commozione, l’ex condannato ci ha fatto sentire la sua voce, raccontando nel dettaglio la sua dolorosa vicenda.
Herman Lindsey fu accusato dell’omicidio del proprietario del banco dei pegni di Fort Lauderdale, in Florida. L’assassinio avvenne nel 1994, ma il processo si tenne nel 2006, dopo la testimonianza di alcune persone che accusavano di colpevolezza Herman.
“Inizialmente quando mi hanno arrestato non ero preoccupato, sapevo che ero innocente e pensavo che in un paio di giorni me la sarei cavata. Quando però hanno iniziato a portarmi in tribunale ogni settimana capii che qualcosa non quadrava”. Fu l’inizio di un lungo iter di processi, nei quali, volta dopo volta, si andava a costruire il quadro di una vicenda che non combaciava con la realtà.
Vennero presentate quattro diverse prove a sostegno della sua colpevolezza, una delle quali supportata persino dalla ex moglie dell’uomo, che, dopo il divorzio, testimoniò di averlo visto presso il luogo del delitto, contraddicendosi rispetto a ciò che aveva professato in precedenza, ovvero l’estraneità alla vicenda da parte dell’uomo. Ma la prova che sancì la sua iniziale condanna fu la testimonianza di un uomo di nome Mark, coinvolto nella vicenda ma sconosciuto all’imputato, che si servì di una falsa dichiarazione per scagionarsi, come successivamente egli stesso finì per confessare.
La condanna arrivò di lì a poco.
Inutili furono i tentativi di appello da parte di Lindsey e del suo avvocato: otto giudici su dodici votarono per la pena di morte dell’uomo.
“Mi ricordo le esatte parole pronunciate dal giudice quel giorno. Ero scioccato, non riuscivo a credere alle mie orecchie: mi veniva persino da ridere, non mi rendevo conto di quanto stesse accadendo. Ero appena stato condannato a morte per il crimine più grave al mondo e solo io sostenevo la mia innocenza”.
L’uomo restò nel braccio della morte fino al 2009 in attesa dell’esecuzione. Visse tutti questi anni in una cella di appena sette metri quadrati in condizioni difficili, tant’è che arrivò a manifestare pesanti disturbi psichici.
Dopo i numerosi ricorsi avviati dalla difesa di Lindsey, venne riaperto il caso e l’uomo fu finalmente liberato per mancanza di prove sufficienti soltanto dopo tre lunghi anni: oggi il suo compito è raccontare le disgrazie ingiustamente subite in modo tale da combattere anche per chi non ne ha la forza e si trova ad affrontare situazioni simili.
La sua toccante vicenda ha davvero colpito tutti. In sala durante il racconto si percepiva assoluto silenzio e profonda attenzione, sfociata in numerose domande poste da noi studenti a Lindsey al termine della conferenza. Questa la conclusione del suo discorso:
“Non voglio discutere con chi pensa che la pena di morte sia necessaria. Di solito mi limito a porre alcune domande: come può essere una soluzione affidabile se ogni anno ci sono centinaia di esonerati dal braccio della morte per errori giudiziari, prima della condanna definitiva? Se gli errori giudiziari avvengono, non potrebbero risultare evidenti quando ormai è troppo tardi? La vita di un uomo può avere fine per giudizio di un altro uomo?”
Giulia Volpato 4D