“Avrete imparato qualcosa il giorno in cui avrete avuto questa rivelazione interiore di ciò che siete in relazione a ciò che fate”
Toni Servillo sceglie di far riflettere il pubblico del Piccolo Teatro di Milano sulla difficoltà di essere attori: tematica forse più ampia, da ricondursi alla necessità moderna di ritrovare una profondità perduta a discapito di una comoda superficialità.
L’Elvira, diretto ed interpretato da Toni Servillo, è stato scritto da Brigitte Jaques, che trasse spunto dal saggio di Louis Jouvet Molière e la commedia classica (1965). Si tratta della messa in scena di sette lezioni tenute dal maestro Jouvet a Claudia, sua allieva, impegnata nel ruolo di Donna Elvira nel Don Giovanni di Molière. La vicenda, realmente avvenuta, si svolge nella Parigi degli anni 40, che sta progressivamente cadendo nelle mani dei nazisti.
“Vi dico una cosa essenziale: ogni volta che avete la sensazione che una cosa vi viene facile, parlo di una cosa ottenuta senza sforzo, questo non è bene”, dice Jouvet.
Il teatro, un teatro efficace e sensato, richiede dedizione, sacrificio, impegno; è necessario perdere se stessi, per ritrovarsi. E solo mettendo in circolo questo infinito meccanismo di perdizione e ritrovamento, di miglioramento attraverso la scoperta del peggio di sé, ci si può ridimensionare e diventare un vero attore.
Jouvet fa letteralmente a brandelli il mondo fittizio ed artificioso del teatro fatto da chi ha talento: togliere il sé – l’impeto egoista di chi esige che il suo talento sia ascoltato – è essenziale per lasciarsi coinvolgere dall’avventura teatrale.
Ma non è tutto: “La tecnica che non viene dal sentimento crea banalità, convenzione, luogo comune, sciocca tradizione”. Sviscerandone quasi ogni aspetto, il maestro giunge al cuore della recitazione: “L’intelligenza drammatica non basta se non c’è il sentimento”.
Dopo mesi di prove, Claudia riesce infine a trovare se stessa, o meglio, ad abbandonarsi completamente alla natura di Elvira, a cogliere nel profondo l’essenza di questo personaggio; nonché a far nascere dentro di sé la grande Arte del Teatro. Ma è troppo tardi: i nazisti occupano Parigi, e lei, ebrea, si vede costretta a fuggire; l’opera non andrà mai in scena.
Seppur mantenendo un grande significato di fondo, la rappresentazione ha evidenziato qualche difetto: la staticità della scena, per esempio, unica per tutta la durata; la ripetitività del dialogo tra Claudia e Jouvet, che si configura sostanzialmente come un lungo monologo del maestro interrotto fugacemente da brevi sentenze dell’ allieva. Sono difetti forse inevitabili, a causa della struttura del testo; ma sono difetti che impediscono il pieno coinvolgimento del pubblico.
Tuttavia rimane un dato di fatto: quella della Jaques e di Servillo non è solo una lezione di teatro, ma è anche una lezione di vita. In una società superficiale e vacua, mettere in gioco se stessi e raggiungere la profondità dell’essere è l’unico strumento possibile per dare senso alla propria esistenza.