Fra le tante pubblicità natalizie che da ormai alcune settimane “monopolizzano” la televisione, ce n’è una che colpisce particolarmente. Si conclude con “auguri di buon Natale a tutti i bambini del mondo”. Una frase scritta nero su bianco, forse banale e stereotipata ma che vuole dare – almeno a noi sembra così, crediamoci – un briciolo di speranza a quei bambini che non potranno vivere la gioia, la felicità e la serenità che solo lo spirito natalizio sa creare. Sono i bambini di Aleppo. Spesso tragicamente orfani. Non vivranno il Natale non perché sono di un’altra religione, ma perché da più di quattro anni la loro terra è teatro di una guerra civile. Da alcune settimane la situazione in città si è ulteriormente aggravata: il presidente siriano Assad stringe i tempi per la riconquista di Aleppo, eserciti e uomini imbracciano le armi, sulle case dei civili cadono bombe. È una guerra tutti contro tutti, destinata purtroppo a non concludersi in tempi brevi. Si continuerà a sparare e a morire. Anche la vigilia di Natale, il 25 dicembre e a Santo Stefano: saranno giorni terribili, come tutti gli altri da tanto, troppo tempo. Il loro Natale trascorrerà così, nella speranza di arrivare a sera e avere ancora un parente a fianco con cui dormire la notte successiva; il nostro sarà molto diverso, tra regali, ritrovi e “abbuffate” in compagnia. Ci sarà la classica corsa all’ultimo regalo e, dall’altra parte, la corsa disperata di una mamma che ha perso tutto, anche il figlio, nell’ultimo raid di fine giornata. È un paragone crudele e azzardato. Un paradosso più grande di noi. Che non si può e non si deve accettare, anche se siamo noi quelli fortunati. Com’è giusto che sia, a breve festeggeremo il Natale, secondo le nostre tradizioni familiari e culturali, come sempre abbiamo fatto e come sempre faremo. Ma ci auguriamo con un po’ più di consapevolezza: a casa nostra è Natale, ma non per questo lo sarà ovunque.
Sansone Mattia