Sabato sera, pizzeria molto frequentata, vicino al mio tavolo c’è un gruppo di ragazzine. Festeggiano il compleanno di una di loro, dodici anni. Sono sedute una di fianco all’altra ognuna col suo cellulare davanti al viso, che cliccano, vedono filmati, si mandano messaggi da un lato all’altro del tavolo. Al momento della torta, come emerse dal torpore, si fanno fotografare dai genitori, che stavano qualche tavolo più in là. Scattata la foto, le ragazzine si riposizionano al tavolo, gli occhi rapiti dal solito smartphone, avulse dal contesto, dalla festa, dalla compagna a portata di gomito che ripete lo stesso gesto.
Non sono solo i danni fisici, mentali, comportamentali che pediatri e specialisti denunciano di fronte alla deriva tutta italiana dell’uso dei telefoni, nessun altro paese in Europa ha così tanti cellulari. “Il 62% dei bambini di età inferiore a 12 anni in Italia ha un telefonino personale e viene usato per molte ore al giorno per giocare, inviare sms e foto, telefonare, collegarsi a internet e a social network; il 44,4% dei bambini ha già un cellulare tra i 9 e gli 11 anni, mentre il 17,6 % ne possiede uno addirittura a 7 anni (www.aiart.org).”
Quello che lascia smarriti è l’evidente incapacità di alzare lo sguardo dallo schermo e di relazionarsi con il mondo intorno, di lasciare vagare la mente senza ricorrere freneticamente al conforto del clic, dello strusciamento dell’indice, del contatto altrui ma solo virtuale, fluorescente come un display. Non c’è bisogno di parlare, se puoi chattare. Non c’è bisogno di guardare negli occhi se puoi scattare una foto e studiare in quale sei venuto meglio, in quale risulti più affascinante, più grande, più. Ci si guarda così, via foto. Al massimo ci si commenta.
Gli adulti, forse, possono ragionevolmente controllare questa schiavitù che ci toglie i tempi morti, gli sguardi lunghi e casuali, presi come siamo ad ottimizzare ogni secondo, a controllare messaggi, posta elettronica, social e quant’altro.
I bambini no. Gli adolescenti neppure. Ne faremo una generazione di ripiegati, di primati involuti, di malati di cervicale, ognuno curvo a scrutare il palmo della propria mano, a cercare una presa per caricarsi, richiamati da trilli, rumorini, vibrazioni, esattamente come noi.
Nel migliore dei mondi possibile, il cellulare non è l’estensione della nostra mano. Si può perfino dimenticare a casa. È solo un oggetto. È solo uno strumento. Se non l’hai, forse riesci persino a sopravvivere: fermerai un cortese passante, lo guarderai negli occhi e gli chiederai aiuto. Senza temere che ti aggredisca per il semplice fatto di avergli rivolto la parola. Nel migliore dei mondi possibile, i genitori hanno una responsabilità molto grande. Quella di saper dire di no. E alzare loro, prima dei figli, lo sguardo dal cellulare.
Maria Borelli