Immigrazione: mille storie, una sola guerra

Il 1 Marzo tutta Italia festeggia la Giornata della Cura, dedicata a prendersi cura delle persone e del pianeta. Serve per riscoprire il valore del curare ciò che ci sta intorno in questo mondo ormai devastato dalla guerra e dalle divisioni. In particolare dobbiamo riscoprire l’importanza di porgere la mano a chi è a noi estraneo, riconoscendone i diritti nonostante le differenze che caratterizzano ognuno e, all’apparenza, ci dividono. Ma come possiamo aiutare qualcuno senza sapere il suo vissuto e le difficoltà che ha affrontato?

Per questo motivo, Alidad Shiri, giornalista di origini afghane, si è recato in 3F lunedì 3 Febbraio, per raccontare la sua storia e il suo lungo viaggi che, da un’Afghanistan devastato dalla guerra, l’ha portato in Italia.

A tutti i bambini del mio Paese, ma soprattutto alle bambine e ragazze, perché abbiano la possibilità
di studiare.

Questo è l’incipit del libro in cui ha scelto di raccontare la sua storia quando, nel 2021, i Talebani occuparono nuovamente la sua città e il suo Paese. In queste parole, lo scrittore richiama alla memoria tutto il dolore che ha reso la sua infanzia una continua lotta per la sopravvivenza.

Alidad Shiri è nato nel 1991 a Ghazni da una famiglia benestante, figlio di un comandante del partito di Wahdat. Ciò gli ha permesso di studiare sia nelle scuole normali, sia in quelle coraniche, aperte anche d’inverno. Tuttavia, tutto cambiò dopo la morte di suo padre per mezzo di una mina: aveva solo nove anni, ma dovette scontrarsi contro una realtà di morte e guerra. Si trasferì dalla zia, appena in tempo per salvarsi dal bombardamento che uccise la madre, la nonna e la sorellina. Presto la guerra che aveva preso la sua città si espanse e con la zia scappò in Pakistan. Da lì dovette proseguire il viaggio da solo perché la reputazione di suo padre lo metteva in pericolo; affidandosi ai trafficanti, passò dall’Iran, dove decise di non rimanere perché voleva studiare ed esaudire il suo sogno. Passò così alla Turchia fino alla Grecia. In ogni Paese doveva lavorare, altrimenti non avrebbe potuto né mangiare, né intraprendere i diversi viaggi. Nel suo peregrinare fu accompagnato da diverse persone e ancora rimpiange di non aver potuto aiutare chi rimaneva indietro.

Infine, giunse in Italia nascondendosi sotto un tir, che lo portò fino a Bressanone. Una macchina del servizio autostradale lo portò dai Carabinieri che gli chiesero i documenti. Non avendoli, fece ciò che era solito fare in Iran, ovvero corrompere i poliziotti; tuttavia questa volta non funzionò: i carabinieri lo portarono al Comando, dove gli fu offerto cibo e un divano su cui riposare. Sempre i carabinieri lo accompagnarono poi al Kinderdorf, dove gli offrirono una stanza, la compagnia di altri ragazzi e, soprattutto, la possibilità di studiare.

Oggi Alidad Shiri lavora per  Adnkronos, una azienda di stampa italiana, e vive nei pressi di Bolzano, in una casa ad alta quota tra le Alpi che gli ricorda la sua patria. Vive in Italia come rifugiato politico e questo gli permette di scrivere e viaggiare e di raccontare il suo Paese e la sua storia, affinché possa essere di ispirazione per le migliaia di persone che ogni giorno sono costrette a lasciare le proprie case alla ricerca disperata di un futuro migliore.

Il giornalista è stato anche uno dei protagonisti che, a seguito della strage di Cutro, ha collaborato per il riconoscimento dei corpi. Infatti, le persone sulla barca affondata avevano fatto un video in cui Alidad riconobbe suo cugino. Così scese e cominciò le ricerche del cadavere che si protrassero per giorni. Oltre al suo dolore, ha raccontato i pianti dei parenti che, straziati, hanno visto i cadaveri, chi di persone, chi attraverso uno schermo.

Durante l’incontro è stato chiesto quale potrebbe essere il ruolo di giornalisti e scrittori nel miglioramento delle condizioni dei migranti. Gli ospiti hanno spiegato che un grande passo sarebbe una narrazione più oggettiva dei fatti e non raccontare gli sbarchi ai fini di propaganda politica. Inoltre, far parlare direttamente i migranti, far raccontare loro la loro stessa storia, potrebbe davvero cambiare le cose, o per lo meno non permettere più che vengano ignorate.

Nessuno lascerebbe la propria terra per intraprendere un viaggio tanto rischioso, se rimanere nel suo Paese natale fosse possibile. I migranti scappano dalla fame, dalla morte, dalla guerra, e non appena sbarcano sulle nostre coste ci rivoltiamo contro di loro per paura. Ma paura di cosa? Aiutare chi è in difficoltà, anche se estraneo, è un dovere, come è un diritto riceverlo. Dopotutto, i confini sono linee tracciate sulla carta dall’uomo e se un essere umano li attraversa, deve essere trattato come tale.

Elena Notari 3F

Foto di M. Fornari e di https://www.ilcinque.info/

 

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