Dobbiamo essere onesti: chi di noi quando si parla di imperfezione non pensa a un qualcosa di negativo, di sbagliato? Probabilmente nessuno ed è normale così, dato che viviamo in una società che ci cresce col dogma della perfezione. Eppure persino Rita Levi Montalcini nel suo elogio dell’imperfezione ci dimostra come questo non sia del tutto vero, anche in una materia come la scienza, dove ci viene logico pensare che tutto debba essere perfetto per poter essere considerato anche solo semplicemente accettabile.
Rita Levi Montalcini stessa ammette che alcuni dei suoi lavori più perfetti, almeno a livello di soddisfazione personale, si sono sviluppati infatti seguendo inclinazioni personali o scelte clamorosamente istintive, dichiarando di essere riuscita in questo modo a creare quella che lei chiama imperfection of the life and of the work, filosofia di vita che si basa sul presupposto che l’essere umano, per sentirsi realmente in pace con sé stesso, non dovrebbe seguire modelli irraggiungibili, ma piuttosto un qualcosa di realmente accessibile e migliore, seppur accettandone le imperfezioni. L’enciclopedia Treccani definisce così l’imperfezione: l’essere imperfetto, il mancare cioè di qualche dote o qualità necessaria per essere perfetto. Più concretamente, il difetto stesso che rende imperfetto.”
Riassumendo, l’imperfezione è semplicemente quel qualcosa che non ci rende perfetti, e la perfezione, da definizione, è irraggiungibile. Quindi, eliminando tutte quelle pare e quelle seghe mentali che siamo maledettamente bravi a costruire nella nostra testa, credo di essere giunto alla conclusione più logica: l’imperfezione stessa è la nostra anima, la nostra polpa, l’essenza stessa che ci permette di poterci chiamare esseri umani; è quel qualcosa che ci rende reali. E tuttavia, seguendo le banalità della società, degli altri, continuiamo a rinnegare ogni nostro difetto, ogni imperfezione, ogni microscopica macchiolina, arrivando quasi a disumanizzarci con le nostre stesse mani, piuttosto che cercare di valorizzarci. E così facendo ci ingabbiamo in una vera e propria prigione d’oro, quella della perfezione, che ci potrà anche far sembrare migliori agli occhi del mondo, a costo però di privarci della forma di gioia più semplice di tutte, l’unica gioia veramente perfetta: quella di stare bene con sé stessi, raggiungibile solamente accettando i propri difetti.
E fidatevi se vi dico che è uno scambio estremamente impari: scambiereste la cosa più vicina alla felicità pura per dell’aria fritta, un’illusione, un qualcosa che potrebbe essere ma non è e probabilmente non sarà mai? Io no.
Io no, perché il potersi guardare allo specchio ed essere orgogliosi di quello che si vede non ha prezzo. Ed è bello, perchè per fare ciò, a differenza di quanto purtroppo si crede, non serve per forza riuscire a raggiungere la perfezione (che spesso rappresenta semplicemente uno standard troppo elevato) ma basta fermarsi un attimo e accorgersi che effettivamente qualcosa, anche con tutti i nostri difetti, lo valiamo.
E quando qualcuno riuscirà a fare ciò, a guardarsi ed essere fiero di sé stesso, si accorgerà che ognuna di quelle che ha sempre considerato le sue debolezze è in realtà un’opportunità: ogni difetto è infatti una sfida, un ostacolo da superare, è vero, ma è allo stesso tempo un qualcosa che se superato, proprio in quanto ostacolo, porterà in realtà ad un miglioramento, il che, correggetemi se sbaglio, è un qualcosa di estremamente positivo. E’ tutto perfettamente lineare.
Una volta capito che la perfezione è tutta falsità, questo processo di accettazione/miglioramento diventa quindi imprescindibile in molti aspetti della vita, se si vuole inseguire anche solo uno sprazzo di serenità, soprattutto nei rapporti interpersonali. Una volta eliminata la falsità del perfetto infatti, ogni rapporto sembrerà più sincero, più genuino, migliore. Ogni sorriso, ogni abbraccio, riempirà il vostro cuore in una maniera perfetta. Il bacio dolce di una ragazza, l’abbraccio fraterno di un amico, persino la stretta di mano col più nebuloso degli sconosciuti acquisteranno un nuovo valore, vi sembreranno quasi un accesso temporaneo al paradiso. Non so se comprendete il valore di ciò che vi sto dicendo: stiamo parlando di avere una nostra Beatrice personale, queste sono le basi dello stilnovo del ventunesimo secolo!
Capisco, può sembrare un po’ un esagerazione e sicuramente è così, ma c’è qualcosa nell’accettare i propri difetti e le proprie imperfezioni che è talmente potente da sembrare quasi magico, quasi perfetto, come se fosse la vera chiave di lettura dell’universo, come se bastasse accettare questa piccola verità per riuscire a comprendere il meccanismo che fa girare tutto quanto.
Quindi, prima di chiudere, concedetemi di tediarvi ancora per un po’ e di chiedervi di farmi (e soprattutto di farvi) un piccolo favore: da oggi, nel malaugurato caso in cui non l’abbiate mai fatto, cercate di fidarvi di me e di provare ad accettare ogni vostra particolarità senza farne un dramma. Vedrete che col tempo riuscirete ad accettare ogni vostro difetto. E se anche questo non dovesse accadere non perdetevi d’animo. Pensate per esempio alla storia del brutto anatroccolo. Considerato da tutti come l’emblema della bruttezza, l’imperfezione per eccellenza, si è trasformato nel più bello di tutti proprio grazie a ciò che lo faceva sembrare sbagliato agli occhi degli altri: l’essere un cigno.
Perché allo stesso modo in cui non esiste la perfezione, non esiste neanche l’imperfezione per come la intendiamo noi: semplicemente siamo tutti dei brutti anatroccoli, dobbiamo semplicemente riuscire a trasformarci in cigni.
Lorenzo Barozzi 4C
Immagine di copertina di Alex Hüller 2E