Un goal oltre le sbarre: intervista al prof Lanzi

Luigi Lanzi, l’amante delle storie Zen, il prof con cui parlare in dialetto durante la lezione, colui che “al terzo uffa…”, ma poi non ci si arriva mai. Un personaggio particolare, se ci si pensa, in grado di raccontare milioni e milioni di storie orientali, ma di cui se ne potrebbero narrare altrettante. Per esempio, sapevate che ha lavorato tra le misteriose celle del carcere di Parma, stretto la mano ai “temibili” detenuti dell’ex 41bis e quasi parato un tiro, da far invidia ai migliori calciatori della Serie A?

 

Perché ha scelto di fare il prof di religione?

 

E’ stata una scelta difficile, perché, in realtà, ho sempre avuto molte passioni nella mia vita. Prima volevo fare il medico, poi l’insegnante di educazione fisica, perché facevo molto sport. Però, sono sempre stato molto affascinato dai problemi filosofici e teologici. Per cui, ad un certo punto della mia vita, intorno ai ventisei anni, ho smesso la facoltà di medicina e ho abbracciato la filosofia e la religione. Dopo poco tempo, avendo finito alla svelta l’istituto di scienze religiose di Parma e aver conseguito il diploma alla facoltà teologica di Bologna, ho cominciato a insegnare religione. Era il 1988. Ho iniziato a farlo, e continuo volentieri, perché credo che sia uno degli argomenti più affascinanti che esista.

 

Ha sempre lavorato in un ambiente scolastico?

 

Certamente! Dai ventott’anni in avanti ho sempre lavorato come insegnante, quindi questo è il mio 35esimo anno di insegnamento. Però, prima dei ventott’anni, ho fatto diversi mestieri: il cameriere, il contadino, l’autista del pulmino, quando andavo a prendere i bambini della scuola primaria, e l’istruttore di nuoto.

 

Nella sua intera carriera, c’è qualcosa che l’ha spaventato particolarmente?

 

Direi di no. Le paure e le emozioni ho imparato a gestirle. Certamente, un timore grande l’ho sentito la prima volta che ho insegnato in carcere. Ecco, quella è stata un’esperienza, durante la prima lezione, affrontata con grande timore.

 

Perché ha deciso di intraprendere questo percorso con il 41bis? Qual è la prima sensazione che ha provato una volta entrato nella classe del carcere

 

Quando sono arrivato al Bodoni, l’insegnante di Religione che ho sostituito perché andava in pensione insegnava in carcere e mi ha convinto a fare quest’esperienza.

Ho insegnato sei anni al Bodoni e i primi tre anni ho insegnato agli ex 41bis, quelli che vengono chiamati “mafiosi”, ma che, in realtà, sono soltanto i “killer” e non certo i mandanti. La prima volta che sono entrato nell’aula del carcere di Parma ho provato un grande timore, ma la paura è stata superata nei primissimi secondi passati in classe. Infatti, tutti gli otto studenti che avevo si sono alzati e uno a uno sono venuti a darmi la mano e il benvenuto.

 

Come si svolgevano le lezioni e quali erano gli argomenti trattati?

 

In primo luogo, bisogna leggere e conoscere l’articolo 27 della Costituzione. In questo articolo si dice che La responsabilità penale è personale. Poi si parla del detenuto come persona, che deve essere rieducato. Il detenuto è un carcerato, ma rimane una persona e ha un diritto fondamentale: quello di essere rieducato. Il detenuto ha diritto ad una “seconda chance”, quindi tutte le mie lezioni avevano questo filo conduttore, ovvero il rispetto di sé e degli altri. 

Purtroppo, le carceri Italiane spesso non tengono presente questo importante dettame costituzionale. Non deve essere solo un impegno religioso, ma è anche un impegno etico dello Stato.

Proprio per questo restituire dignità al carcerato è stato il grande sogno che ho cercato di realizzare in carcere.

 

Cosa le è rimasto più impresso di questa esperienza? 

 

Dunque, ce ne sono diverse e non saprei quale scegliere.

Innanzitutto il primo, che ho già raccontato: quello della stretta di mano, perché per tre anni, ad ogni singola lezione, i miei studenti si alzavano e mi venivano a dare la mano, all’inizio e alla fine della lezione. Questo è stato un segno di profondo rispetto. 

Ho un ricordo ricordo legato a uno studente in particolare: alla fine dell’anno scolastico, c’è stata una riunione tra tutti i docenti e il preside Campanini, che allora era preside al Bodoni. Alla fine di questa riunione, alla quale era stato invitato anche il vescovo di Parma, monsignor Enrico Solmi, il preside disse a tutti i docenti: “Ora possiamo andare tutti, ma rimangono qui Lanzi e il Vescovo per un colloquio personale”.

Quella è stata l’unica volta in cui io rimasi all’interno di un’aula non controllata dalle guardie. La mancanza di supervisione fece sì che uno di questi detenuti riferisse al vescovo una sua esperienza personale che ho udito anche io. Un’esperienza tremenda: in nove anni a Parma, non aveva mai avuto la possibilità di abbracciare sua figlia, che aveva una decina di anni. Ci chiese con le lacrime agli occhi se potevamo fare qualcosa. Il vescovo glielo promise e, in effetti, qualcosa fece, ma non bastò; le regole all’interno del carcere sono davvero severissime e gli episodi a cui io ho assistito sono tanti e diversi, ma tutti negativi.

 

Il ricordo più divertente di quel periodo? 

 

L’episodio più simpatico è stato quello di una partita di calcio che abbiamo fatto: detenuti contro docenti. 

Giocavo in porta, perché con il mio fisico la occupavo bene. 

Ad un certo punto, un detenuto fa un tiro fortissimo. Appena tirato, io ho cercato di prendere il pallone alzandomi con la mano, ma non ci sono arrivato. Per cui ho gridato: “Il tiro è alto!”, ma il detenuto ha risposto: “No no, è goal! E’ appena sotto la traversa!”. Ma non c’era nessuna traversa.

L’arbitro era un detenuto veramente simpatico: un ergastolano che aveva sessant’anni. Chissà se è uscito dal carcere, ma non credo. Aveva quarantacinque anni da scontare. Disse: “Ma insomma, non capisci che il tiro è alto? Vuoi rubare un goal anche in questa situazione? Non farti riconoscere sempre!”  

Ecco, con questa battuta ci siamo fermati tutti quanti e abbiamo riso assieme come i veri amici.

 

Cosa si porta dentro ogni giorno? 

 

Quello che mi resta nella vita di tutti i giorni, è il ricordo del profondo rispetto e dello sforzo che mettevamo nell’applicare l’articolo 27. 

Quando sono arrivato al Bertolucci ricordo di aver chiesto al preside Tosolini di avviare un corso nel carcere, ma c’erano troppi problemi burocratici: i licei non entrano nel carcere. Possono farlo solo gli istituti tecnici e professionali come Rondani, Bodoni oppure il Toschi, che allora era istituto. 

 

Ha mai pensato di cambiare vita?

 

Penso che cambiamo vita ogni giorno. Come diceva Eraclito: “Non entriamo mai nello stesso fiume, perché tutto scorre”. Noi cambiamo continuamente. Molte volte, quando propongo una visita al Battistero di Parma, qualche studente mi dice che l’ha già visto; ma si cambia, si cambia continuamente! 

Tu sì, vedi la stessa cosa, ma la vedi con occhi diversi. Hai fatto esperienze che in qualche modo ti hanno cambiato ogni giorno. Perciò hai occhi nuovi per guardare le stesse cose. 

 

Faraboli Sara 1°E, Naso Alessia e Toscano Chiara 2°S

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