In questi tempi di Coronavirus, i nonni hanno davvero bisogno di attenzione. Sono impauriti perché sanno di essere a rischio, incattiviti dalla reclusione ma, soprattutto, si sentono molto soli.
Mia madre, 80 anni, scrive ricordi e ricette, legge la Ferrante, cuce, ma ha esaurito le idee, i libri dell’Amica geniale e la stoffa per fare i cuscini; mio padre, 85 anni, vagabondo per natura, a casa impazzisce. Risultato: i due si beccano di continuo, liti per un nulla, che poi svaniscono nel nulla.
Anche gli amati nipoti sono lontani. Per loro, averli a pranzo dopo la scuola è una ventata di gioia e freschezza, mentre il cuore si scalda di tenero orgoglio. Non li vedono ormai da un mese e mezzo.
Purtroppo i miei genitori non hanno lo smartphone: per loro il “telefonino” è già una grande conquista. Ne avrebbero uno a testa, di quelli piccoli in bianco e nero che si tengono in una mano, ma dico “avrebbero” perché non sempre si ricordano di caricarlo, oppure a quale presa lo hanno attaccato. Il risultato è che l’oggetto viene perso spesso in casa, creando ancora più nervosismo.
Comunque il telefonino serve solo per le chiamate, già aprire o inviare un messaggio è da sempre un problema. Insomma, niente videochiamate con i nipoti, niente whatsappp, solo telefonate a voce, un po’ impersonali: Ciao nonna, come stai..stiamo bene, faccio lezione al computer al mattino…mi manca la pallavolo…qui sempre uguale.
Ragione per cui i nonni, in particolare, soffrono di solitudine ai tempi del Corona.
Finalmente V., mia figlia quindicenne, ha trovato un sistema semplice per fare compagnia alla nonna: ha scritto una lettera.
Una lettera vera, intendo, di quelle con il foglio di carta piegato dentro la busta. Di quelle scritte con la penna che scivola sul foglio bianco imprimendo lettere e parole blu con il marchio di una grafia personalissima, parole che rimangono, che non si cancellano. Una lettera è leggera, ma forte e concreta come un sasso di fiume; la lettera rimane, non vola nell’etere, a volte custodita tra le pagine di un libro, a volte dimenticata in fondo al cassetto o dentro una scatola da scarpe. Difficilmente viene buttata.
Scritta la lettera, però, ai tempi del Corona difficile è imbucarla e spedirla.
Ecco che la sottoscritta si è improvvisata “postina”: la prima volta che sono andata dai miei, bardata di mascherina, guanti, occhiali e cappello, oltre a lasciare la spesa sul pianerottolo, ho consegnato a mia madre la lettera di V.
Indescrivibile l’emozione, ve lo assicuro.
La volta successiva, alla consegna della spesa, mia madre mi porge la sua lettera, sigillata, bella pesante …Chissà quanti fogli…cosa ci sarà scritto…penso io, salendo in macchina. Poi vedo però in lontananza la volante della polizia e la seppellisco in borsa, da cui estraggo l’ultima autodichiarazione.
Arrivo a casa sventolando la busta. “E’ arrivata posta!” , dico. Mia figlia me la strappa di mano e si chiude in camera.
Dopo alcuni giorni, mi presenta un’altra lettera da consegnare alla nonna.
Caspita, la cosa si fa seria.
“Ma cosa vi scrivete voi due?” , chiedo. “Cose nostre”, risponde mia figlia, secca.
La curiosità mi divora, ma non insisto.
Da allora continua la mia missione di postina: una lettera, in media, alla settimana. Mia madre è più serena, di conseguenza, anche mio padre.
Sul cruscotto della macchina, il certificato dichiara, fra le causali: “Situazione di necessità: consegna di una lettera alla nonna”.
Speriamo di non essere sanzionata.
Silvia Fontana