Gole di Samaria (Creta) 22 luglio 1991
L’impresa
Le gole di Samaria, Parco Nazionale nel 1962 (Patrimonio dell’UNESCO nel 2014), sono le seconde più lunghe d’Europa dopo le Gole del Verdon, nella Provenza francese.
La mattina del 22 luglio partecipammo ad un gita organizzata per effettuare il famoso sentiero lungo le gole di Samaria. Giunti in pullman ad Omalos (ad un’altitudine di 1230 metri) eccoci pronti a scendere lungo il canyon. In ogni guida turistica si legge che l’escursione, benché lunga e assolata, è adatta a tutti. Na bela bala! Non fidatevi delle guide turistiche! Il percorso non è lungo, ma lunghissimo (almeno 5 ore); non è assolato, ma bruciato. Dopo tredici km di marcia in mezzo alle Montagne Bianche, attoniti di fronte ai passaggi fra le strette pareti (vedi foto), arriviamo stravolti all’uscita del Parco. Ancora tre km a piedi per raggiungere Agia Roumeli, minuscolo villaggio portuale della costa meridionale di Creta. Qui, in attesa del battello che ci porterà ad un altro porto (ove ci aspetta il pullman per il rientro), entriamo nell’unico bar e, come se avessimo attraversato il Sahara, ordiniamo una cassa da dodici bottiglie di acqua minerale. Il barista sorride amaramente e dichiara che l’acqua è finita. Siamo assetati, agonizzanti. Poi, dietro il bancone, scorgiamo un contenitore refrigerato colmo di spremuta d’arancia. Ne ordiniamo quattro enormi calici. Poi altri quattro. Poi, io e Riki, altri due. Poi altri due. Il barista svuota definitivamente la vaschetta e ci fa omaggio di altri due calici. In totale ingurgitai tre litri di spremuta. Giusto premio all’eroica impresa. Già, ma chi era davvero l’eroe greco?
Spiaggia del Kernos Hotel, Malia (Creta), 23 luglio 1991
Visioni e presagi
Bassorilievo in marmo che rappresenta, da sinistra, Ermes, Euridice ed Orfeo, copia romana di età augustea, da originale greco del V secolo a.C. attribuibile a Alkamenes (allievo di Fidia), conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La scena è commovente: Ermes, con la mano sinistra, trattiene Euridice che accarezza teneramente la spalla di Orfeo che a sua volta, con gesto lieve, pone le sue dita sul polso di Euridice, quasi a trattenere l’amata, costretta a ritornare nell’oltretomba dopo che lo stesso Orfeo ha fallito la prova e si è voltato.
Forse da un’ora o forse più, solo, sulla spiaggia deserta, scrutavo l’orizzonte marino. Giunse alfine l’attimo in cui credetti di scorgere, ancorché in abissale lontananza, la bellissima Europa in groppa a Zeus solcante il Mediterraneo sotto forma di toro bianco e mugghiante. Tuttavia non esattamente Zeus taurino giunse alla mia vista, ma una moto d’acqua cavalcata non già da Europa, ma da un’avvenente giovane cretese conosciuta poi fra le spume dei marosi in tali singolari circostanze da non più tacere. Avvenne che il moto ondoso suscitato da quell’orrendo meccano acquatico mi travolse in pieno tanto che mi sentii risucchiato in un vortice mortale… Ferma Gino, ien tuti bali (stop a tutte le frottole)! Effettivamente andai un po’ sott’acqua, ma quando sentii braccia femminili intorno al corpo, beh, allora mi finsi moribondo o quasi. Lei mi salvò (credette di salvarmi) dalle acque. Novello Mosè. Con quella manfrina da mezzo svenuto, mica potevo dirle che ero un Assistente bagnanti. Si chiamava Euridice. Aveva una curiosa, anzi, inquietante, somiglianza con mia moglie. Sentii attrazione per quella differenza minima, seppur consapevole che tale attrazione, da Hera in poi, lasciava presagire la spinta alla ruota di Ananke-Necessità (vedi post scriptum). Ben presto le declamai l’amatissima lirica “Orfeo, Euridice Hermes” di Rainer Maria Rilke (1875-1926) nella traduzione di Giame Pintor (https://it.wikisource.org/wiki/Poesie_(Rilke)/Orfeo_Euridice_Hermes), edizioni Einaudi, 1983.
Già cresceva la lira sul mio braccio quando giunsero sulla spiaggia i miei compagni di viaggio (fra i quali, per inciso, mia moglie). Forse mi videro fare il cascamorto. Non feci neppure in tempo a spiegare l’accaduto che Euridice prese la parola e ci suggerì di cenare nel vicino ristorante immerso in un meraviglioso uliveto. Poco importa, se il giorno dopo scoprimmo che Euridice era la figlia del proprietario. Poco importa perché ciò che accadde quella notte fu a dir poco memorabile.
PS. “Nello Heraion ebbe inizio la storia del primo tradimento di Zeus, origine di tutte le vendette. Per tradire Hera, Zeus scelse una sua sacerdotessa, l’essere umano che a lei era più vicino, in quanto teneva le chiavi del santuario: Io. Nel suo aspetto, nelle sue vesti, Io era tenuta a ripetere l’immagine della dea che serviva. Era una copia che tentava di imitare una statua. Ma Zeus scelse la copia, desiderò la differenza minima, che basta a disarticolare l’ordine, a produrre il nuovo, il significato. E la desiderò perché era una differenza, perché era una copia. Quanto più trascurabile la differenza, tanto più enorme la vendetta. Tutte le altre avventure di Zeus, tutte le altre vendette di Hera non sono che rinnovate spinte alla ruota della necessità, che Hera aveva accelerato un giorno per punire a donna a lei stessa più simile”. (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 1988, p. 38).
Malia (Creta), 24 luglio 1991, notte
Beniamini degli dèi
A sinistra, Apollo con la chelys-lyra, pittura vascolare greca, museo di Delfi, 460 a.C. circa;
a destra, Dioniso raffigurato su un vaso greco, da Vulci, 520 a.C. circa. Notare l’edera che porta intorno al capo (uno dei simboli del dio), la coppa (kantharos) colma di vino, simbolo dell’ebbrezza e la lunga barba spesso prerogativa del dio.
Quella notte, durante il tragitto di rientro dal ristorante, fui assistito dagli dèi. Pareva che la carreggiata stradale si sdoppiasse più e più volte di fronte alla mia vista offuscata, anzi, obnubilata. Tutt’intorno il mondo, mai così dispettoso, sembrava oscillare a piacere. Tuttavia sentivo una voce interiore (molto interiore) che mi sussurrava: – là! E là mi dirigevo. Arrivammo al nostro alloggio, infine; magari con un pizzico di fortuna, ma arrivammo. Sebbene senza accorgercene (senza dubbio per merito delle nostri mogli), io e mio fratello ci trovammo afflosciati sulle sdraio dell’ampio terrazzo, vicini, finalmente fratelli, come Apollo e Dioniso, non più nemici, falsi nemici, distesi alla notte. Il dualismo classico tra Apollo e Dioniso descrive bene due tipi fondamentali di umanità, due universali possibilità di vita, due polarità. Fin da ragazzo mi ero convinto che mio fratello incarnasse la polarità dionisiaca, contrapposta al mia, apollinea (a proposito di ‘apollineo’ e ‘dionisiaco’ il lettore curioso può avvalersi del post scriptum).
Mio fratello, in estasi dionisiaca, pareva intento a disegnare nell’aria orbite astrali. Sussurrava sillabe incomprensibili, come fosse regredito allo stadio della lallazione o, forse, iniziato ai misteri orfici. Temetti che, di lì a poco, sarebbero giunte le Baccanti a dilaniarlo. Avrei allora spinto di nuovo la ruota degli eventi e ricomposto i suoi frammenti sparsi (Circa ‘apollineo’ e ‘dionisiaco’ il lettore curioso può avvalersi del secondo post scriptum).
La notte, invece, era calma. Avevo il ventre caldo e la fronte serena. Sorse spontaneo il ricordo di Empedocle. Forse pure lui, nella piana di Agrigento, bevve vino resinato a tal punto da avvertire il ciclo delle metamorfosi: “Già un tempo io nacqui fanciullo e fanciulla, arboscello e uccello e pesce ardente balzante fuori dal mare”. Come Empedocle, avvertivo il turbinìo dell’essere. Sentivo d’esser mare e stella, mirto ed eucalipto, sabbia e vento, giovane e vecchio, preda e cacciatore, schiavo e re. Si, re. Re Minos. Di colpo, rivolto a mio fratello, gridai: – Sono Minos! Lui mi guardò con rara intensità, poi rivelò: – Lo so! Anni dopo lo sentii riferire quei momenti ad amici; concluse proisacamente così: Ragass, che baza!
PS. Apollo è il dio dell’equilibrio, della misura, della ragione pura. La via di Apollo è speculativa, spinge a cercare spiegazioni ed elaborare teorie, costruisce sistemi con cui cerca di esprimere il senso ultimo delle cose secondo misura e proporzione. Dioniso è il dio della sfrenatezza, dell’estasi, della creatività, dell’impulso della volontà. L’antitesi tra le due concezioni e la visione della realtà che rappresentano si registra già in Schelling. Nella Filosofia della rivelazione vide nell’una la forma e nell’altra l’impulso creativo. Sarà poi Hegel nella Fenomenologia dello Spirito a suggellarne l’importanza in una pagina che comincia con la celebre frase: «Il vero è un trionfo bacchico, dove non c’è persona che non sia ebbra». Richard Wagner riprenderà queste ultime osservazioni in un libro del 1849, L’arte e la rivoluzione. Toccherà poi a Nietzsche far conoscere il contrasto tra la visione apollinea e quella dionisiaca della vita. Nella Nascita della tragedia (1872) il filosofo, per spiegare il miracolo della Grecia, ricorderà che la prima governa l’arte plastica, l’armonia di ogni schema; la seconda, invece, domina la musica, la quale non conosce forme e necessita di ebbrezza, entusiasmo. Nei suoi frammenti ultimi, conosciuti come Volontà di potenza, lo spirito dionisiaco diventa il fondamento dell’arte: forse perché, per Nietzsche, soltanto grazie ad esso fu possibile ai greci sopportare la vita. Dopo Nietzsche, ricordiamo gli studi di Karl Kerényi (Pensieri su Dioniso del 1935 confluiti poi nel suo celebre saggio, Dioniso, tradotto in italiano solo nel 1992, prima edizione Adelphi) e di Giorgio Colli che, “alla fine degli anni Trenta del ’900 progettò un libro di vasto respiro che recava il provvisorio titolo di Ellenismo e oltre. Nel postumo Apollineo e dionisiaco (Adelphi, 2010), Colli diventa l’esegeta di Nietzsche che invita il lettore contemporaneo a comprendere perché ‘apollineo’ e ‘dionisiaco’ sono «principi universali e supremi della realtà” (da un articolo di Armando Torno, Corriere della Sera, 20 dicembre 2010).
Lassithi (Creta), 24 luglio 1991, alba
I giorni del Cane e la piana di Lassithi
All’alba mi sentii rinvigorito. Mio fratello mi vide rivolto al sole in atteggiamento vagamente orante e dubitò della mia lucidità mentale. Non gli diedi nemmeno il tempo di aprir bocca e dichiarai solennemente: – Eccomi, del tutto ‘astrobletos’, ‘colpito da una stella’ (mi affrettai a tradurre), dinnanzi alla levata eleatica di Sirio, vale a dire quando, da oggi, 24 luglio, fino al 26 agosto, la stella sorge all’alba (ore 5,45) insieme al Sole. Contempliamo in silenzio! Dopo pochi minuti, pochissimi minuti di contemplazione, forse meno di uno (sigh), Riki iniziò a lamentarsi del gran caldo. Ti consoli sapere – gli dissi in tono volutamente saccente, a mo’ di rimprovero per aver osato interrompere l’incanto a Sirio – che tale canicola mattutina è evidente nell’etimologia del termine; ‘canicola’ deriva infatti dal latino ‘canicula’, ‘piccolo cane’, utilizzato proprio per indicare Sirio, la stella più luminosa, dopo il Sole, della costellazione del Cane Maggiore. Sirio, dal greco ‘seirus’, ‘che fa appassire, inaridire’, indica dunque che da oggi siamo entrati nel periodo più caldo dell’anno, i cosiddetti ‘Giorni del Cane’ (si compulsino la stampe del Canis Major tratte da Johannes Hevelius, Prodromus Astronomiae, Firmamentum sobiescianum, sive Uranographia, 1687 e da Uranographia di Johann Bode, edita a Berlino nel 1801). Conèn – commentò in dialetto Riki – le par collì che a g’ho doss na ‘cagna’… Dopo la sua curiosa intuizione circa l’origine del termine dialettale ‘cagna’ (che potremmo rendere con ‘spossatezza psicofisica’, in effetti assai frequente nei ‘Giorni del Cane’, giorni di caldo soffocante), gli venne un dubbio: – Alora parché d’inveron as dis c’à ghè un ‘fred da càn’? Perché nel Nord Europa – risposi ancora più saccente di prima – Sirio è la stella luminosa dell’equinozio d’inverno; in quei giorni, quando il freddo è molto intenso, si dice che c’è un ‘freddo da cani’, anzi, presso le popolazioni scandinave esiste l’espressione ‘freddo da tre cani’, nata con l’antica usanza di far entrare tre cani nella tenda per potersi meglio riscaldare grazie ai loro corpi.
Esaurito il saluto alla levata eliaca di Sirio, per sfuggire al gran caldo, decidemmo di visitare l’altopiano di Lassithi posto a 817 metri di altitudine. Il paesaggio è caratterizzato dalla presenza di 10.000 mulini a vento sparsi ovunque, per l’irrigazione delle aree agricole. Sostammo a prender riposo presso un ameno paesello; in realtà quattro case o poco più, ma fu lì che ebbi un incontro indimenticabile. All’ombra del suo fico secolare, sedeva un vecchio, centenario pure lui. Sopra un minuscolo banchetto esponeva i suoi prodotti: yogurt, noci, mandorle, miele e tre bottiglie di una bevanda misteriosa. Il vecchietto notò il mio vano tentativo di interpretare l’etichetta; con mia grande sorpresa, mi disse: – Sei italiano, vero? Una faccia, una razza. La bevanda che stai guardando è “acqua di miele”, hydromeli, la bevanda degli dei, preparata secondo la ricetta di Plinio (vedi PS 1). Tuttavia le bottiglie non sono in vendita. Chiesi come mai e lui mi rivelò che non avrebbe potuto stabilire un prezzo. Mi fece assaggiare latte fermentato con miele e noci. Mentre ringraziavo, un pensiero, anzi, un progetto, già iniziava a delinearsi (vedi PS 2).
PS 1. Secondo Plinio (Naturalis historia, XXXI, 69) occorre conservare l’acqua ‘celeste’ (piovana) per cinque anni, quindi farla bollire fino a ridurla a 2/3 del volume originario, poi aggiungere 1/3 di miele vecchio, infine, nel periodo della levata eliaca di Sirio ( ! ), lasciar riposare la mistura in un askòs (otre in pelle di animale) adatto alla fermentazione del sacro liquido che, nel culto greco – doveroso rammentarlo – , mantenne a lungo il primo posto davanti al vino, come si evince dalle istruzioni per i sacrifici funebri dell’Odissea (X, 519): “prima di miele e latte (melikratos), poi di vino soave!”.
PS 2. Appena rientrato in Italia, raccolsi acqua celeste, conservandola fino al 24 luglio di cinque anni dopo, quando iniziai a far fermentare la mistura di acqua (per 1/3 evaporata all’uopo) e miele. Ahimè, ottenni un hydromeli con un retrogusto orrendo. Forse influì la polvere del garage. In ogni caso incolpai mia moglie che non mi permise mai di comprare l’indispensabile askòs. Il fatto più demoralizzante fu che, di fronte alle mie rimostranze, fece spallucce. Eh si, fece proprio spallucce.
Prof. Lanzi Luigi