[…] E che c’entro io in tutto questo? Perché dovete passare a guardarmi? Papà, ti prego, non ti ostinare, lasciami morire in pace.
Mi sembra che i giorni passino irregolarmente, non sapendomi regolare con il tempo. Da quando sono peggiorata improvvisamente, non sono più permesse visite; tuttavia mio papà e Aurora trovano lo stesso il modo di infiltrarsi tra le infermiere e rifugiarsi nella mia stanza per tentare di leggermi il diario dell’ultima volta che ci siamo visti e consolarmi. Una consolazione che mi sembra serva più a loro che a me; sono quasi diventata uno sbocco per sfogarsi: loro vengono e liberano loro stessi con me, fiduciosi nel mio ascolto e in attesa del mio tacito consiglio. Ma quando ci sono, li sento a malapena: a meno che i suoni non provengano da molto vicino, essi mi giungono distorti o non arrivano affatto. Ciò che mi è permesso udire delle loro voci, mi sembra alterato, anormale; la voce di mio padre è quella di un uomo stanco, che è stufo di sopportare ciò che sta vivendo. Sembra quasi sia lui la vittima. Ma io lo capisco, neanche per lui deve essere facile, avere una figlia bloccata in ospedale. E adesso che ha anche mollato il lavoro, gli rimaniamo solo io ed Aurora. Io, per modo di dire. E nonostante tutto, lui persevera nell’errore e continua a venire in ospedale, ad osservarmi da fuori la mia stanza. Lui non sa che io lo so, ma l’infermiera mi riferisce sempre tutto la mattina presto, prima che io venga lavata, ed io per questo la ringrazio. Ma non riesce a capire che per me non c’è più nulla da fare? Non capisce che dovrebbe abbandonare questa prigione che è l’ospedale e ricostruirsi una nuova vita? Se non per se stesso, almeno per Aurora. Lei è quella che sta soffrendo di più in questo momento. La sua voce, ah, la sua voce ho ormai smesso di udirla da molto tempo. Lei sta crescendo, ed è proprio in questo momento, il momento del passaggio da un’età ad un’altra, che una figura dovrebbe accompagnarla. Ma lui non c’è. Lui non c’è perché si rinchiude nelle sale dell’ospedale con sua figlia comatosa, per la quale nulla si può più fare.
Oggi, improvvisamente, dopo un lungo silenzio che riconduco alla notte, comincio a sentire delle voci e percepisco del movimento intorno a me. Inizialmente penso che possa essermi successo qualcosa, che io stia finalmente morendo, ma non è preoccupazione quella presente nella stanza, o frenesia; no, è tensione, e calma. Qualcuno comincia a parlare ed io, stranamente, riesco a capire perfettamente ciò che dice.
«Signore, voglio essere franco con lei. Sua figlia è ormai totalmente dipendente dalle macchine. Dubito che si possa ancora risvegliare. Un anno è passato e le sue condizioni sono solamente peggiorate.» C’è un attimo di silenzio, probabilmente per lasciare a mio padre il tempo di elaborare. «L’unica cosa che si può fare adesso è… Liberarla da tutto. Spegnere ogni cosa.»
Una delle altre persone presenti comincia a respirare affannosamente e a mormorare ripetutamente «No, no». Chiaramente mio padre.
«Voi non potete farlo. Non potete chiedermi di uccidere mia figlia.»
«Capisco sia una scelta ardua, signore, ma va comunque presa in considerazione. Presto i tessuti epiteliali di sua figlia cominceranno ad andare in putrefazione, ed allora non ci sarà più niente da fare.»
C’è un attimo di stallo, poi qualcuno si muove ed esce, provocando un forte rumore di porta sbattuta. Ovviamente mio padre non riesce a mantenere la calma, specialmente in situazioni come queste.
«Quanto pensa che possa durare ancora?»
Riconosco immediatamente la voce; è quella dell’infermiera che parla sempre con me.
«Non posso dare una data precisa, ma comunque rimane poco. Ci vorrebbe un miracolo.»
Sì, ci vorrebbe proprio un miracolo.
Ed è proprio un miracolo ciò che si verifica quella notte. Sono in stato di dormiveglia e la solita luce fioca delle lampade penetra le mie ciglia sigillate. Percepisco una strana sensazione di calore che mi avvolge, forse dovuta alle numerose coperte con cui mi ha infagottata l’infermiera. Improvvisamente sento questo calore in me che cresce, divampa, fino a che non diventa insopportabile. Ed è proprio lì, in quel momento, che sento una voce che mi chiama. Non dice altro, con una voce forte e calda, con una calma disumana, soltanto il mio nome.
«Alice.»
Lo ripete più e più volte, ed io soffro dentro di me poiché voglio rispondere, voglio scoprire chi è il misterioso interlocutore. Mi sforzo e tento, ma nulla, dalla mia bocca non esce alcun suono, nemmeno le labbra osano muoversi. E poi la voce smette improvvisamente di chiamarmi. E mi sento male, perché finalmente c’era qualcuno in mia compagnia, ma mi ha già abbandonata.
«Guarda che ce la puoi fare. Non sei muta.»
Riconosco la voce come femminile. Penso che si riferisca a me, al mio mutismo, e mi chiedo come faccia a sapere che io potrei riuscire a parlare. Ma non mi pongo domande e continuo a sforzarmi, a cercare di emettere un suono, anche uno solo, dalla mia bocca. E, incredibilmente, ci riesco.
«Chi… Sei…?»
Mi stupisco di me stessa, e cerco di capire se sto sognando, se sono definitivamente morta oppure se mi sto effettivamente svegliando dal coma.
«Non sei neanche cieca. Puoi aprire gli occhi.»
A questo punto nulla mi sembra impossibile e indirizzo le mie forze nel tentativo di aprire i miei occhi. Ed inspiegabilmente ci riesco. Mi ritrovo seduta sul sedile del guidatore di un’automobile, in una strada deserta, circondata dalla luce fioca delle lampade dell’ospedale. Accanto a me, sul sedile del passeggero, vi è una donna, che non può avere più di quarant’anni. Assomiglia incredibilmente ad Aurora, ma non può essere lei; è troppo vecchia. Oppure mi sono svegliata dal coma dopo così tanti anni? Oppure io sono morta, e vedo un’Aurora cresciuta?
«Sono…Morta?»
«Non ancora, no.»
Solo ora noto un’altra somiglianza: è quasi identica alla donna presente in molte delle foto di casa mia, ma è un volto che sto dimenticando. In effetti, non mi ricordo quasi più casa mia.
«Vuoi dire che sto morendo?»
«Dipende.»
«Cosa vuol dire dipende? E che cosa ci faccio io in quest’auto?»
«Beh, dipende, dato che la scelta è tua; la vita è la tua, non la mia.» Poi dà un rapido sguardo fuori dal finestrino. «Perché siamo in auto? Non è qui che hai avuto l’incidente?»
«Sì, ma non guidavo io. E poi con me c’erano Beppe e Marta.» Singhiozzo improvvisamente, ricordando il mio ragazzo e l’amica che avevamo trovato quella notte, entrambi morti.
«Hai ragione, ma non penso siamo qui per rivivere il tuo incidente. Per fare una scelta, forse. No?»
Mi guardo intorno, disorientata. Oltre la strada, si vede solo la luce fioca dell’ospedale. Non so dove io sia.
«Una scelta? E che scelta dovrei fare?»
«Beh, mi sembra ovvio. Potresti partire in retromarcia e tornare nell’oblio, il tuo inferno. Probabilmente moriresti. Non era quello che volevi? Se lo facessi, finiresti dove sono io ora. Il posto non è male.» Fa una pausa, sorridendo beffarda. «Altrimenti, potresti partire e andare dritto avanti a te. Dove andresti? Non lo so nemmeno io. Ma penso che questa sia la strada della speranza, e ti condurrebbe verso una nuova vita.»
Io non capisco. «Devo scegliere adesso?»
«Qui e adesso.»
Osservo il cambio. È in folle. Posso scegliere di metterlo sulla retromarcia, oppure metterlo in prima.
«Qualunque cosa sceglierai, io e tuo padre saremo sempre fieri di te, Alice.»
Mi volto a guardare nuovamente la donna ed ho una rapida visione di un candido sorriso, prima che lei sparisca.
Torno ad osservare il volante. Sposto il cambio.
Prendo la mia decisione.
Simone Saccani – 1F