Andrea Mantegna
Isola di Carturo (Padova), 1431 – Mantova, 1506
L’oculo della Camera degli Sposi e la casa di Mantegna (il verum)
Camera degli sposi (Camera picta, camera dipinta, come era designata in passato) è una sala cubica (di 8,05 metri per lato) collocata nel torrione nord-est del Castello di San Giorgio di Mantova affrescata da Andrea Mantegna in nove anni, dal 1465 al 1474, per celebrare la famiglia Gonzaga. La volta è affrescata suggerendo una forma sferoidale e presenta centralmente un oculo, un tondo aperto illusionisticamente verso il cielo che doveva ricordare il celebre oculo del Pantheon, il monumento antico per eccellenza celebrato dagli umanisti. Nell’oculo, scorciati secondo la prospettiva dal basso verso l’alto, si sporgono da una balaustra una dama di corte, accompagnata dalla serva di colore, un gruppo di domestiche, una dozzina di putti, un pavone e un vaso. Per rafforzare l’impressione dell’oculo aperto, Mantegna dipinse alcuni putti in bilico aggrappati al lato interno della cornice, con vertiginosi scorci dei loro corpicini paffuti. I personaggi sembrano ammiccare, quasi fossero in procinto di uno scherzo, far cadere l’enorme vaso di agrumi nella stanza. Secondo alcune interpretazioni Mantegna si sarebbe ispirato a un testo retorico di Luciano di Samosata dedicato alla sala ideale; secondo altre teorie le presenze femminili dell’oculo sarebbero un’esaltazione del prestigio dinastico mentre una terza ipotesi sottolinea il legame con gli studi di Leon Battista Alberti sulla casa romana antica.
Dopo aver ammirato la Camera degli sposi è consigliabile visitare la casa del Mantegna, costruita a partire dal 1476 su un terreno donato all’artista da Luigi II Gonzaga. La casa si presenta sobria all’esterno con volumetria cubica dentro la quale è stato inscritto un patio cilindrico aperto al cielo; appare davvero suggestivo il confronto con il celebre oculo della Camera degli sposi. Attualmente le abitazioni dell’edificio sono spazi espositivi gestiti dall’Amministrazione Provinciale di Mantova. La singolare concezione del progetto del Mantegna, il patio a pianta circolare inscritto nel quadrato, è l’evidente allusione alla simbologia del divino riferita al De pictura dell’Alberti, come suggerisce l’iscrizione posta su uno degli architravi di un portale del cortile: ab Olympo. Riecheggia la memoria dell’antica bottega di Fidia ad Olimpia, sulle cui pietre il fulmine di Zeus aveva inciso il riconoscimento della grandezza. Per Mantegna la casa rappresenta la fama, lo status e il dono divino dell’ingegno, autoritratto dell’uomo e dell’artista rivolto al verum.
Il Redentore (il bonum)
Il Redentore, Tempera su tela, 35 x 43 cm, 1493, Correggio (RE), Congregazione di Carità. Oggi, Collezione privata.
La tela, come quasi tutti i dipinti a tempera a colla del Mantegna, è stata danneggiata nel corso delle puliture (1916 e 1991), scurendone di molto la superficie. Tuttavia, il dipinto esercita ancora un fascino irresistibile e toccante, esemplare del misticismo cristiano del Mantegna (Frey, 1905). Cristo, raffigurato dietro la cornice di una finestra e illuminato da sinistra, sta di fronte all’osservatore con lo sguardo assente e l’espressione malinconica. Contrariamente al modello iconografico del Redentore risorto (il Salvator mundi che impartisce la benedizione), qui la figura è una persona viva, misteriosamente vicina e lontana al tempo stesso. Sulla cornice di sinistra la scritta latina in verticale dice: “Mortificate voi stessi (assumete il dolore) davanti all’immagine del mio volto”. Per riscattare la morte, Gesù ne ha trascinato su di sé il pungiglione, assumendo sulla propria persona il Dolore dell’umanità. Ogni uomo può specchiarsi nella sublime immagine (laddove l’arte e la fede del Mantegna sono mirabilmente congiunte) del Santo Volto Addolorato, contemplare il mistero ultimo del soffrire negli occhi di chi, la Sofferenza, l’ha compresa e vinta. Siamo stati redenti, ma il dolore è ancora il nostro fardello perché il Redentore ha sconfitto la Morte, non il morire. Contemplare il Dolore di Gesù significa farci suoi compagni di viaggio nell’assunzione sempre più consapevole del Dolore in vista del definitivo Riscatto. L’asimmetria dello sguardo è caratteristica delle prime icone del Volto santo, frutto di uno strabismo più o meno accentuato; sono stati proposti due significati: uno ‘realistico’, in quanto fin dalle prime riproduzioni del modello Sindonico l’occhio sinistro di Gesù appare fortemente compromesso per i colpi ricevuti, tanto da apparire vitreo, addirittura accecato); l’altro, ‘teologico’, si riferisce al mistero della duplice natura – umana e divina – del Cristo, per cui un occhio incontra ‘l’umanità’ mentre l’altro è rivolto all’orizzonte divino. Tale effetto è accentuato dall’iscrizione sul libro: EGO SUM NOLITE TIMERE, Sono io, non temete, le parole che Cristo rivolse agli apostoli quando apparve loro camminando sulle acque (Mt 14,27) e nell’intimità di una stanza, dopo la Risurrezione (Lc 24,36). Il Volto del Redentore ci restituisce l’abbandono del Figlio nell’Abbraccio del Padre; Gesù consegna se stesso e il Dolore del Mondo nella Misericordia di Dio. Le labbra, socchiuse, sembrano aver appena sussurrato Parole di vita eterna: Padre,nelle tue mani rimetto il mio spirito (Lc 23,46).
Il Cristo morto ( il pulchrum)
Andrea Mantegna, Cristo morto, Tempera a colla su tela, 68 x 81 cm, Pinacoteca di Brera, Milano
Il Cristo morto (noto anche come Lamento sul Cristo morto), databile tra il 1475-1478 circa, è celeberrima per il vertiginoso scorcio prospettico della figura del Cristo disteso, che ha la particolarità di “seguire” lo spettatore che ne fissi i piedi scorrendo davanti al quadro stesso. Considerata uno dei vertici della produzione di Mantegna, l’opera ha una forza espressiva e al tempo stesso una compostezza severa che ne fanno uno dei simboli più noti del Rinascimento italiano. L’opera viene in genere messa in relazione alla Camera degli Sposi, con il contenuto illusionistico della prospettiva nello scorcio dell'”oculo”. Un “Cristo in scurto” (“scorcio”), destinato forse alla devozione privata dell’artista, è citato tra le opere rimaste nella bottega di Mantegna dopo la sua morte nel 1506.
E’ noto che la critica d’arte interpreta il ‘Cristo morto’ come un eccezionale esercizio prospettico, ma, poiché Mantegna non si pone qui di fronte ad una scena mitologica, bensì al momento più drammatico della vita terrena di Cristo, sarebbe doveroso chiedersi quale fu il riverbero della fede dell’artista in un’opera che fu probabilmente conservata per la sua devozione religiosa. Si può ipotizzare che Mantegna si sia inginocchiato (come le tre persone del dipinto – Giovanni, Maria e, forse, la Maddalena – maschere di pietra, pietrificate dal dolore) per osservare il ‘suo’ Cristo morto, contemplandolo dal basso, consegnandolo alla nostra contemplazione dal basso, per elevarlo. Elevazione è il termine che l’Evangelista Giovanni usa per ‘Risurrezione’. Il Cristo morto è già, per uno sguardo orante, il Cristo Elevato, in contemplazione del pulchrum, la Bellezza gloriosa del Cristo Risorto. In modo ancor più suggestivo si potrebbe azzardare l’ipotesi che Mantegna abbia guardato il corpo di Cristo con gli occhi del bambino; non solo per l’altezza degli occhi che impone la prospettiva dal basso verso l’alto, ma per quello sguardo incantato proprio del bambino che non vede il cadavere, ma il sonno dell’Uomo destinato al Risveglio; uno sguardo incantato che deve diventare qualità propria dell’obbedienza di fede: “Vi assicuro che se non cambiate e non diventate come bambini non entrerete nel regno di Dio” (Mt 18,3).