Lunedì 29 gennaio, nel corso dell’Assemblea di Istituto, gli studenti delle classi prime, seconde e terze del Liceo Bertolucci hanno visto Wonder, film drammatico del 2017 diretto da Stephen Chbosky, tratto dal romanzo omonimo del 2012 di R. J. Palacio (pseudonimo di Raquel Jaramillo). Il giovanissimo Jacob Tremblay interpreta la parte di un ragazzino di undici anni, August (Auggie) Pullman, affetto dalla sindrome di Treacher Collins, malattia dello sviluppo cranio facciale (colpisce un neonato su 50.000) che, nella finzione cinematografica, lo ha costretto a 27 interventi chirurgici. Auggie, circondato dall’amore profondo dei suoi familiari – la mamma Isabel (Julia Roberts), il papà Nate (Owen Wilson) e la sorella Olivia detta Via (Izabela Vidovic) – si appresta a frequentare la prima media in una scuola pubblica, dopo che per anni aveva ricevuto lezioni private dalla madre. Auggie sa che deve togliersi l’amatissimo casco da astronauta e mostrare il suo volto a tutti gli studenti della scuola e ai nuovi compagni di classe. Nonostante si senta ‘pietrificato’ dalla paura accetta di iniziare l’esperienza. Tra episodi di bullismo capeggiati da Julian Albans (Bryce Gheisar) e nuove amicizie con Jack Will (Noah Jupe) e Summer (Millie Davis), Auggie saprà conquistare e trascinare i cuori di tutti (e, in particolare, quello di sua madre che, nella scena finale, gli dice: – Tu sei un prodigio) tanto da ricevere, con tale motivazione, la medaglia di miglior studente dell’anno scolastico. Insomma, Auggie è davvero wonderful.
Il film presenta molti spunti di riflessione. Sarebbe molto importante discutere del rapporti fra gli adolescenti, per esempio quello fra Via e Miranda (Danielle Rose Russell) o quello fra Via e il suo ragazzo o i rapporti fra questi adolescenti e i rispettivi familiari. Tuttavia mi pare che il tema centrale del film sia quello della diversità; un argomento particolarmente ‘visitato’ dal cinema del passato e del presente e non solo attraverso il genere ‘drammatico’, ma anche dal genere ‘comico’ (si pensi alla nuvoletta di Fantozzi e alla sua proverbiale ‘sfiga’). Di fronte ai numerosissimi film che ci raccontano di persone portatrici di diversità fisica o psicologica evidente, corriamo il rischio che ognuno di noi, davanti al mostro, possa, più o meno consapevolmente, sentirsi rassicurato nella propria presunta normalità. Normalità solo presunta! Infatti ogni volta che puntiamo il dito sulle diversità altrui ci allontaniamo dalla capacità di riconoscere le nostre diversità. Inorridendo di fronte alla deformazione di Auggie o ridendo della iper sfortuna di Fantozzi corriamo il rischio di crogiolarci nella convinzione che io non sono e non sarò mai così brutto o sfigato. Invece… Invece, ahimè, è sufficiente una semplice riflessione per ammettere sfortune e sofferenze, errori e limiti che ci sono compagni di vita quotidiana. Ciascun essere è diverso in un mondo di diversi. Con buona pace di chi si sente ‘normale’ (o, peggio, ‘superiore’). In realtà ciascuno di noi è diverso, sia dal punto di vista genetico (CHE COSA SONO, vale a dire quali caratteristiche genetiche ho ereditato) sia dal punto di vista culturale (CHI SONO, vale a dire quale stile di vita scelgo o ho potuto scegliere, quale istruzione, quale educazione, quale formazione, quali libri, quali persone, quali relazioni e con quale qualità). Nella sua nuova scuola Auggie si sente continuamente fissato come un mostro ed è subito in crisi: Perché sono così brutto? – chiede a sua madre. Lei risponde: – Tu non sei brutto. E Auggie: – Tu dici così perché sei mia madre. E ti pare poco? – risponde lei, come dire che una madre che ama profondamente il figlio è in grado di restituirgli il volto. Anche papà Nate dichiara, ad un certo punto del film, di aver nascosto il casco di Auggie perché vuole vedere sempre il volto del figlio a cui vuole un bene grandissimo. Mi viene in mente quando, già quindicenne, tornando a casa da scuola incrociavo lo sguardo di mia nonna che ‘stravedeva’ per me (‘stravedere’ per qualcuno, è così che diciamo in gergo dialettale per indicare un amore fortissimo verso una persona), cioè aveva una capacità di guardarmi con amore e gli bastavano davvero due o tre secondi per indovinare il mio stato d’animo e chiedermi: – Perché sei triste? Allora le chiedevo: – Come hai fatto a capirlo? Ti ho guardato in volto – mi rispondeva. Solo le persone che ci amano sono capaci di restituirci il nostro volto, non lo specchio, non il selfie che oggi, così spesso, rivela il narcisismo di sempre. La grande lezione della madre di Auggie non è finita. Torniamo a quel dialogo. Dice ad Auggie che il volto, il nostro volto, è una mappa.
Poi mamma Isabel fa qualcosa di veramente stupendo; mostra un neo vicino all’occhio comparso (evidentemente per l’ansia, per lo stress) dopo la prima operazione subita da Auggie, poi indica le rughe in fronte, comparse dopo gli altri interventi chirurgici; poi i primi capelli bianchi (quelli sono un dono di tuo padre – dice mamma Isabel, facendo sorridere il figlio).
Auggie è davvero un ragazzo meraviglioso; nella sua riflessione finale, contro ogni bullismo, al riparo da ogni cattiveria, occorre vedere la realtà che ci circonda, “vedere bene” le persone. Proprio come suggeriva il pittore Giorgio Morandi: “Dipingere è facile, basta vedere”. Già, vedere. Non uno sguardo banale o, peggio, narcisistico (vedere solo se stessi è il primo passo per non capire se stessi), ma come insegna il Preside Tushman (Mandy Patinkin, indimenticato attore delle prime serie di “Criminal minds”) ai genitori del bulletto Julian, Auggie non può cambiare la sua faccia, ma noi possiamo cambiare il nostro sguardo. L’invito del Preside è così forte che Julian (non i suoi genitori, ahinoi) capirà la punizione e chiederà scusa: – Mi dispiace. Possiamo e dobbiamo cambiare il nostro sguardo! Come iniziare a cambiare il nostro sguardo per vedere bene? Raccogliamo il grande insegnamento di Gandhi (di cui ricorrono in questi giorni i settantanni della morte): Sii tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Per rapportare la mia diversità con quella dell’altro devo vedere bene, riconoscere che in ognuno, in me e in ogni persona ci sono limiti e meraviglie.
Meraviglie da scoprire, se non vogliamo fare come il cervo “cerca profumo”:
Un giorno un cervo sente nell’aria un profumo inebriante, ma non riesce a individuarne l’origine; così si mette a cercarlo, ma senza risultato. Anche il giorno successivo avverte il profumo meraviglioso, crede di coglierne la provenienza in una valle; la percorre in lungo e in largo, ma invano. Così passano i giorni, i mesi, gli anni; il cervo cammina un numero incalcolabile di strade, senza giungere mai alla fonte del profumo. Un giorno, mentre sale una roccia, scivola, cade e si ferisce mortalmente. Accade allora un fatto sorprendente: mentre il cervo sta per morire si lecca le ferite ed ecco, sente che il profumo meraviglioso viene dalla sua pelle.
Prof. Lanzi