L’arte di fronte alla fede: verum (la ragione), bonum (la morale), pulchrum (la bellezza)
Introduzione
Il celebre saggio di Sabino Acquaviva (1927-2015), L’eclissi del sacro nella società industriale, fu dato alle stampe nel 1961. Si potrebbe aggiungere che oggi, nell’era post industriale, nell’era digitale in cui viviamo, le cose sembrano addirittura peggiorate. Un’eclissi, infatti, è una perdita temporanea di luce; il termine ‘eclissi del sacro’ lasciava spazio anche ad uno scenario in cui si sarebbe potuto in qualche modo recuperare la luce della spiritualità.
Molti studiosi oggi sostengono che il sacro, profondamente legato alla spiritualità umana, non può esaurirsi (perché non può scomparire una componente costitutiva dell’uomo), ma può mutare direzione; il sacro può essere, diciamo così, convogliato altrove.
E’ un dato di fatto che negli ultimi trent’anni la pubblicità (non quella fine ed elegante in mostra in questi giorni alla Magnani Rocca, ma la pubblicità televisiva) ha operato una vera e propria sacralizzazione degli oggetti. Orologi, auto, smartphone (e altri osvigli) sono stati investiti da un’aura salvifica. Le parole utilizzate? No limits, infinity, per sempre.
Secondo una tipica espressione parmigiana, ‘ocio’ (c’è di che stare all’occhio), attenti: “Gli oggetti ci spingono nell’angolo” (Gabriel Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera).
Sarebbe interessante fare un’indagine fra i cristiani che vanno ancora a messa, chiedere quanti si accostano al sacramento dell’eucaristia e, di più, con quale atteggiamento? Mangiare Dio, per un fedele, è un’esperienza intimamente unitiva con il divino? Si fa la comunione con meravigliato timore? O la meraviglia e il “timore-tremore” della fede sono sentimenti in via d’estinzione o rivolti all’ultima novità tecnologica?
Ecco cosa sento bisbigliare dai miei studenti durante la lezione: – E’ già uscito l’i-phone a cristalli organici? Mi interrompo, li guardo negli occhi e chiedo: – El col bagai ca s’piga? Fal anca al cafè?
Di fronte alla ‘fuga’ del sacro occorre ripensare le tre vie indicate dalla teologia (il verum, la via razionale; il bonum, la via morale; il pulchrum, la via della bellezza) attraverso l’approccio dell’arte, in contemplazione dei grandi capolavori della pittura.
Iniziamo da tre opere di Rembrandt Harmenszoon van Rjin (Leida 15 luglio 1606 – Amsterdam, 14 ottobre 1669) che richiamano le tre vie.
Il verum, la via razionale
Filosofo in meditazione, Olio su tela, cm 28 x 34, 1632, Louvre, Parigi
Sin dal XVII secolo gli studiosi di Rembrandt hanno voluto vedere nei suoi quadri qualcosa che va oltre una bella giustapposizione di colori e di forme: un messaggio sulla condizione umana, una riflessione sul mondo. Roger de Pils, nel suo Abrégé de la vie des peintres (1699) afferma che Rembrandt, dietro ‘storie’ prese in prestito dalla tradizione, in realtà aveva “tratteggiato un’infinità di pensieri”; Thoré-Burger ne Les Musées de la Hollande (1858-1860) descrive Rembrandt come profondo e inafferrabile: “Non sappiamo che cosa dire: restiamo in silenzio, “riflettiamo”. Nel 1999, Simon Schama riconosce che Rembrandt è un maestro dell’emozione, ma aggiunge: “Sin dall’inizio Rembrandt fu anche un acuto pensatore, tanto filosofo quanto poeta” (da Il filosofo Rembrandt di Tzvetan Todorov, La Reppubblica, 05/09/2011).
Lo stile di questo dipinto è tipico della pittura di Rembrandt. La trama di fondo è di tono scuro, e le figure appaiono dal buio grazie a sprazzi di luce. Una tecnica che ha ovvi riferimenti alla maniera di Caravaggio, ma che in Rembrandt acquista un significato completamente diverso. Il buio di Caravaggio è l’ignoto e la paura che avvolge il mondo. In Rembrandt l’oscurità non ha questo valore drammatico, ma quasi di accogliente riparo. Il buio è il proprio rifugio, che si apre di quel tanto che permette alla luce di portarci il suo tiepido calore (dal commento al quadro sul sito del Louvre).
Il vecchio filosofo in meditazione occupa lo spazio illuminato, mentre una donna viene appena rischiarata dal fuoco di un camino posto sulla destra in basso. Fra le due figure, vera protagonista del dipinto, la scala a chiocciola il cui motivo a “s” richiama l’essenza ondivaga del pensiero e, dalla seconda metà del XX secolo (quello che oggi è dimostrato fu un tempo solo immaginato scriveva William Blake), induce la suggestione della forma connaturale alla nostra essenza biologica, la doppia elica del DNA (LL).
Il bonum, la via morale
Il ritorno del figlio prodigo, Olio su tela, cm 243 x 182, 1668, Hermitage, San Pietroburgo
Rembrandt conobbe una rapida ascesa e fama di pittore e questo lo rese polemico, iroso, avido di denaro e lussurioso. In definitiva per buona parte della sua vita Rembrandt è stato come il giovane arrogante che se ne è andato da casa fino a perdersi. Venne però il momento in cui l’artista dovette affrontare una serie di sventure: nell’arco di sette anni perse due figlie, un figlio e la moglie; rimase solo con un figlio di 9 mesi. Risposato, ebbe due figli, ma poco dopo morirono la moglie, un figlio e, nel 1666, anche il figlio Tito. Rembrandt sprofondò nell’abisso della solitudine. Il padre, in questo dipinto eseguito solo un anno prima dalla morte, non è un autoritratto nel senso delle sembianze somatiche; è il volto di un uomo che nella vita ha fatto una immensa esperienza di sofferenza e solitudine al punto che le lacrime versate l’hanno reso cieco. Come disse Van Gogh: “Si può dipingere un quadro così solo dopo essere morti tante volte”. Rembrandt conosce bene il culmine del racconto evangelico: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15,20). Il verbo centrale è: «si commosse», che letteralmente significa: si sentì rimuovere nelle viscere, cioè si sentì toccare nel profondo del suo cuore. Un gioco intenso di luce e di oscurità, un contrasto tra il rosso e il nero nelle loro varie gradazioni guidano lo sguardo dello spettatore a ritornare sempre al centro. Questo centro invisibile e nascosto, ma onnipresente, è il cuore del padre, sorgente di ogni bene: da lì tutto parte, là tutto arriva (Danilo Dorini, pdf in rete, 2010).
Ho visto questo quadro all’Hermitage nel 2005; due particolari mi rimangono scolpiti nella memoria: le mani del padre e il suo mantello rosso che si staglia con forza indicibile. I due particolari esaltano la figura del padre che rimanda a Dio, Padre Misericordioso; un Dio paterno e materno, giusto e amorevole, come le mani nel dipinto: la sinistra, maschile, forte e nodosa, e la destra, femminile, lieve e aggraziata. Davanti al dipinto di Rembrandt si spalanca il bonum, la via morale: essere misericordiosi, perdonare (LL).
Il pulchrum, la via della bellezza
Cena ad Emmaus, 1628-9 circa, Olio su tela, 39 x 42 cm, Musée Jacquemart-André, Parigi
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista.(Luca 24, 30-31)
L’artista in quest’opera abbandona il metodo descrittivo, in qualche modo supera il livello del racconto: la scena si fa pura rappresentazione; l’atto della visione diventa essenziale, come se l’autore volesse dirci: il cuore della realtà sta tutto in questa rivelazione, una illuminazione che assorbe in sé ogni dettaglio. Il momento culminante del racconto evangelico per il pittore olandese non è, secondo la lettura tradizionale, quando Gesù Cristo viene riconosciuto, ma quando, riconosciuto, sparì dalla loro vista. Che cosa rimane ai discepoli? La realtà della sua Presenza, che permane oltre la visione fisica, e illumina tutto di sé. L’artista coglie l’attimo in cui l’occhio interiore si spalanca alla comprensione. Questo è il momento della verità: l’esperienza esteriore, fisica, non è che anticipo, via per una conoscenza più profonda, più completa, della verità della cosa. Quando accade questa esperienza lo sguardo si semplifica, si spoglia di ciò che non è essenziale; non vedo, non posseggo questa Presenza, ma essa mi permette di conoscere la realtà illuminandola: essa mi ridona la realtà (Emanuela Centis, pdf in rete).
Siamo di fronte alla presenza/assenza del Cristo che c’è, sebbene in una dimensione che supera il vedere fisico e si fa visione spirituale del mistero eucaristico, bellezza della fede. Con timore e tremore, contempliamo.
Prof. Luigi Lanzi