Bombardare un ospedale: la guerra senza più limiti, un richiamo per la nostra coscienza

Il 13 aprile 2025 un evento drammatico ha scosso ancora una volta la Striscia di Gaza: l’ospedale Al Ahli al Arabi, l’ultima struttura sanitaria pienamente funzionante nella città, è stato colpito da un bombardamento dell’esercito israeliano. Questo attacco ha aggravato una crisi umanitaria e sanitaria già estremamente grave, lasciando migliaia di persone senza accesso alle cure mediche. L’ospedale rappresentava l’ultima speranza per molti civili feriti o malati, ed è stato distrutto in pochi minuti. Il reparto di chirurgia, il pronto soccorso, il laboratorio, la farmacia e il sistema di ossigenazione per le terapie intensive sono stati gravemente danneggiati o completamente distrutti.

Secondo alcune testimonianze riportate dai media internazionali, l’esercito israeliano aveva avvisato il personale dell’ospedale dell’imminente bombardamento, dando solo 18 minuti per evacuare: un tempo del tutto insufficiente per spostare medici, infermieri, pazienti gravi e attrezzature sanitarie. Alcuni pazienti sono stati portati fuori in fretta e furia, spesso senza le cure necessarie, al freddo, in condizioni di totale emergenza. Almeno tre persone sono morte durante l’evacuazione, tra cui un bambino.

Israele ha giustificato l’attacco sostenendo, senza però fornire prove concrete, che all’interno dell’ospedale si trovasse un centro di comando e controllo di Hamas. Tuttavia, in quel momento, la struttura ospitava soprattutto civili, molti dei quali erano già stati feriti durante i precedenti bombardamenti. Il personale medico ha affermato l’impossibilità di continuare a curare i pazienti in un contesto così distrutto e caotico.

Questo attacco si inserisce in una situazione sanitaria e umanitaria già al collasso. Da tempo, la Striscia di Gaza è sottoposta a un blocco molto rigido da parte di Israele, che impedisce l’ingresso di medicinali, carburante, attrezzature mediche e beni di prima necessità. Solo pochi giorni prima del bombardamento, il ministero della sanità palestinese aveva dichiarato che il 37% dei farmaci essenziali e il 59% delle forniture mediche erano completamente esauriti. Particolarmente gravi sono le conseguenze per i pazienti affetti da malattie croniche come diabete e tumori, che ormai non possono più ricevere le cure salvavita di cui hanno bisogno.

Le strutture sanitarie rimaste operative sono sovraffollate e del tutto inadeguate a gestire l’emergenza. I medici lavorano in condizioni estreme, spesso senza luce, senza strumenti adeguati, senza anestesia. Ci sono testimonianze di interventi chirurgici eseguiti senza le condizioni minime di sicurezza. La distruzione dell’ospedale Al Ahli ha messo ancora più sotto pressione le poche strutture rimaste, che non riescono più a garantire assistenza nemmeno nei casi più gravi.

Questa situazione, personalmente, mi ha colpito molto. Leggere che l’ultimo ospedale funzionante di una città intera è stato distrutto in un attimo mi fa pensare a quanto la guerra non colpisca solo soldati o militari, ma soprattutto persone comuni, civili che già vivono ogni giorno nella paura. Un ospedale dovrebbe essere un luogo sicuro, sacro, dove chi soffre può ricevere aiuto. Invece, in questo caso, è diventato un bersaglio.

Secondo gli accordi internazionali, colpire un ospedale è una grave violazione dei diritti umani. Le strutture mediche, anche in tempo di guerra, dovrebbero essere protette. Quando queste regole vengono ignorate, ci si chiede davvero quale sia il limite che non si può superare. E soprattutto, perché quel limite viene superato così spesso, senza conseguenze reali per chi lo fa?

Quello che mi fa ancora più rabbia è il comportamento della comunità internazionale. Davanti a una tragedia così grave, le grandi potenze, le Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie e perfino molti Paesi arabi sembrano limitarsi a guardare, senza fare davvero qualcosa. Parlano, rilasciano dichiarazioni, ma non seguono azioni concrete.

Riflettendo su questo, mi rendo conto di quanto sia facile, per noi che viviamo lontano da questi conflitti, abituarci alle immagini di distruzione. Le vediamo nei telegiornali, le scorriamo distrattamente sui social, e poi passiamo ad altro. Forse è un meccanismo di difesa, ma alla fine rischiamo di diventare indifferenti. Invece, dietro ogni foto, ogni video, ci sono persone vere. Medici che lottano per salvare vite con mezzi insufficienti. Bambini che soffrono e hanno paura. Famiglie intere che non sanno se sopravviveranno al giorno successivo.

Purtroppo, questo tipo di tragedia non accade solo a Gaza. Anche in altri conflitti recenti, come in Siria, nello Yemen, in Ucraina o in Sudan, gli ospedali sono stati spesso presi di mira. E questo dimostra come, troppo spesso, le guerre moderne non rispettino più nessuna regola. Non colpiscono solo i combattenti, ma anche chi non c’entra nulla.

Alla luce di tutto questo, mi chiedo: cosa possiamo fare noi? È davvero sufficiente indignarsi, condividere un post sui social, firmare una petizione online? Forse sì, ma solo come primo passo. Servirebbe che le persone, i cittadini comuni, si informassero di più e agissero in modo deciso. Non possiamo continuare a rimanere spettatori passivi di tragedie come questa.

La distruzione dell’ospedale di Gaza è il simbolo di una guerra che ha superato ogni limite, ed è un richiamo alla nostra coscienza. Davanti a tutto questo dolore, il silenzio non è più accettabile. Anche se non possiamo risolvere tutto da soli, non possiamo nemmeno far finta che non stia accadendo. Essere informati, è il primo passo per non essere complici.

Codispoti Alice

 

foto di copertina: Ansa

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