Quando si visita il Festival del Cinema di Venezia è possibile immergersi in un’atmosfera simile a quella che forse aveva percepito Pinocchio entrando nel Paese dei Balocchi, un luogo in cui la realtà assume una dimensione diversa, che regala, tra le altre cose, speranza, spensieratezza e coralità, per due sole settimane all’anno.
Quest’anno si è celebrato l’80esimo anniversario, e per l’occasione sono stati messi a disposizione diversi tipi di accredito, che in genere vengono assegnati a giornalisti e persone del settore. Io e altri ragazzi, avendo collaborato nel corso dell’anno a diversi progetti con Officina Arti Audiovisive di Parma, abbiamo avuto l’opportunità di organizzare un viaggio di soli tre giorni, e con l’accredito studenti abbiamo potuto prenotare una decina di film che avremmo guardato in alcune sale del Festival.
Dopo un viaggio in treno di circa quattro ore, ci siamo incamminati dalla stazione di S. Lucia di Venezia al Bed&Breakfast che ci avrebbe ospitati per le due notti seguenti. Eravamo in dieci e i letti erano divisi in due stanze, una da sei e una da quattro, dandoci l’impressione di trovarci in un piccolo ostello privato. Una volta sistemati zaini e valigie, ci siamo avviati al Lido per il nostro primo film, alle 11 di mattina. Il terzo e ultimo film della prima giornata è terminato verso le otto di sera. Tanta era la gente che, all’uscita dalla sala, si doveva rimanere per qualche minuto in mezzo a decine di persone prima di ritrovare qualcuno del gruppo con cui aspettare che pian piano arrivassero gli altri.
Quella sera però le persone assembrate, invece che dividersi nei diversi gruppi di cinefili, molti dei quali portavano al collo lo stesso nastro rosso con agganciato l’accredito, sembravano dirette verso un luogo ben preciso. A pochi passi dalla sala, infatti, a quell’orario, la riva dell’isola dava su un tramonto che colorava l’orizzonte di una palette arancione, rossa e gialla, in cui la luce soffusa sembrava consumare l’euforia, l’entusiasmo e la vivacità che ci avevano accompagnati nel corso della giornata, mentre il blu soprastante preannunciava il velo più romantico e sereno che avrebbe coperto il Lido fino a tarda sera.
Molte persone si affrettavano verso quei pochi spazi rimasti vuoti con una buona posizione per immortalare quel momento prossimo a svanire tra le isole della laguna, magari anche ispirandosi a qualche spunto cinematografico dal film appena guardato. O forse ero solo io?
Il giorno seguente mi è capitato di guardare un film dall’ultima fila, in cima alla sala della Palabiennale, tra la parete da cui usciva lo stretto fascio di luce e la parete su cui era proiettato ciò che quella luce trascinava sopra centinaia di persone: una posizione strategica per avere un’idea dell’ipnosi collettiva a cui avevamo tutti deciso di sottoporci per un paio d’ore. E lì ho iniziato a riflettere, prima di essere trascinata anch’io in quello stato di trance.
“Eccovi un frammento del mondo in cui viviamo, che vi sia familiare o meno. Questo è il mio punto di vista al riguardo, e il vostro?”, sembrava dire la persona che aveva dedicato tempo e impegno alla realizzazione di quella storia, con una composizione, una struttura e un messaggio ben definiti, in una proiezione di luci e colori che sembrava tanto affascinare le persone in sala.
Sempre il secondo giorno della vacanza, ho avuto un’altra esperienza non indifferente. Al termine di “Gasoline Rainbow”, stavolta nella sala del Casinò, durante gli applausi le luci hanno illuminato un punto particolare al centro della sala in cui i due registi e alcuni interpreti del film si stavano scambiando abbracci e sorrisi, circondati dal pubblico che con i suoi applausi copriva la musica di sottofondo dei titoli di coda che continuavano a scorrere sul grande schermo. Sarebbero poi rimasti ancora un po’ di tempo in sala per rispondere alle domande di una giornalista, offrendo aneddoti e riflessioni sul film, a cui avevano iniziato a lavorare da prima della pandemia.
I Festival secondo me dovrebbero proprio permettere al loro pubblico di confrontarsi con le diverse prospettive e approcci adottati dai cineasti verso le storie che hanno scelto di rappresentare. E nel caso di Venezia, ciò avviene nell’atmosfera idilliaca, corale e suggestiva della Biennale, ovvero la fondazione culturale di cui il Festival è solo una delle componenti. Il Lido appare come un locus amoenus in cui ci si dimentica della tradizionale patina di snobismo che spesso ricopre eventi del genere, proprio perché nelle strade dell’isola si percepisce un’aria diversa: si respira, senza nemmeno accorgersene, l’entusiasmo che coinvolge le persone che fanno e amano il cinema. A differenza del Paese dei Balocchi, questo “luogo”, ad una persona disorientata, avvilita o disillusa, potrebbe far ritrovare un senso di direzione, uno spirito di iniziativa, dopo essere entrata a contatto con la varietà, l’inclusività e soprattutto il rispetto che la Biennale ha dimostrato negli anni non soltanto ai suoi ospiti più rinomati ma anche ad artisti emergenti, ponendosi come un faro verso una gamma squisitamente ibrida di varie espressioni artistiche, dal Balkan Baroque di Marina Abramovic al film “Povere creature” di Yorgos Lanthimos.
L’ultima sera, fra le vie e i borghi di Venezia, magicamente svuotati, risuonavano le voci indistinte di una decina di persone di Parma che, prima di raggiungere un ristorante per mangiare i loro primi cicchetti veneziani del viaggio, si scambiavano idee e interpretazioni sui film visti quel giorno. C’era chi aveva scelto un film diverso dagli altri e ne raccontava trama e messaggio, chi condivideva gli aneddoti della “Q&A” con i registi e gli attori, oppure chi cercava di esprimere le sue opinioni contro correnti riguardo a un nuovo presunto capolavoro moderno.
Con molti di loro, prima di questo viaggio, non ci si conosceva, eppure sentivo che si stava creando un’intesa tra di noi, un legame sempre più stretto man mano che si discuteva su una determinata storia, scritta e realizzata peraltro da altri, mentre al collo tenevamo ancora quel nastro rosso dell’accredito che a ogni nostro passo ci saltava sul petto. Non vorrei elevare troppo quelle nostre chiacchierate, ma tenderò sempre a reputare serate del genere più speciali di altre, perché le considero la manifestazione lampante del potenziale che il cinema ha nel restituire un più forte senso di umanità e nel rendere un po’ più sfocate le barriere tra persone che, per quanto simili, presentano un passato e un’identità propri e unici. Auguro a chiunque di vivere un’esperienza del genere.
Sara Cocconi 5G