Ancora negli anni sessanta del Novecento, per gli scolaretti di prima elementare come me, gli abbecedari figurati erano un aiuto formidabile per la comprensione e la scrittura di lettere e parole. Fin dalla fine del XIX secolo gli abbecedari si distinguevano per la relazione fra lettera e disegno di riferimento:
1. Associazione
La lettera iniziale “d” associata non alla parola “leone”, ma a … “domatore”
2. Rimozione
I disegni (figure a destra) suggeriscono le parti sillabiche rimosse delle parole relative ai soggetti oppure (figure a sinistra) spronano a cercare l’intera parola che identifichi l’immagine, solitamente preceduta dall’articolo che determina il genere ed il numero.
3. Richiamo
4. Sovrapposizione
La lettera contiene in sè un’immagine il cui nome inizia per la lettera stessa (T come Toro)
5. Accorpamento
L’immagine ha la forma della lettera e rappresenta un soggetto il cui nome inizia per quella lettera (T come Tulipano). Ricordo ancora l’immagine di un fiore in cui la “f” iniziale aveva la forma del fiore.
Walter Benjamin (1892-1940) criticò gli abbecedari figurati in cui “le lettere dell’alfabeto sono diventate in certi casi nient’altro che scheletri da rivestire con decorazioni su decorazioni per renderle più attraenti o soggette a un esasperato biomorfismo che pretende di ricavare la forma di ogni lettera dalla sagoma di un oggetto reale”. La stampa degli abbecedari rispondeva più a una ricerca figurativa dell’adulto che alle esigenze di una chiarezza didattica funzionale all’apprendimento del bambino. Benjamin a parte, ho sempre pensato che il fascino infantile che provai per gli abbecedari (quando lettere e figure stampati a carattere cubitale sui cartelloni dell’aula prendevano vita sul mio quaderno) sia tuttora attivo nell’ammirazione degli ultimi segni ideografici viventi, nelle lingue ebraica e cinese, in cui la forma del segno grafico coincide con il significato. Non è portentoso? Prendiamo l’antico pittogramma cinese che di-segnava l’acqua:
A sinistra, il pittogramma shui (la pronuncia è “shuèi”, con la “e” un po’ allungata; ringrazio della
precisazione l’amica Yahui Chen, Lettrice di Cinese al Liceo Marconi di Parma), acqua, è costituito da un corso d’acqua con i rispettivi argini. A destra, nell’ideogramma contemporaneo shui, ‘acqua’, il segno grafico, pur nell’evoluzione stilizzata, mantiene gli stessi elementi (il corso d’acqua e i due argini), lo stesso suono e lo stesso significato concettuale, vale a dire, come ben espresso nel Canone buddista (Dhammapada 279) che “Nessun essere è dotato di un sé”. Poiché ogni ente (ogni realtà, animata o no, ogni oggetto, pensiero, insegnamento…) è privo di Sé, di conseguenza, lungi da una visione nichilista, è, proprio in quanto privo di autonomia, costitutivamente relazionato. Non esiste il fiume in sé, ma il fiume è una realtà relazionata a tutto ciò che la circonda e, almeno, da due argini. Anca i nostér vécc, da ch’indré, i d’zèvén che “par fèr un foss a gh’vól dó spóndi”; anche i nostri vecchi, nel passato, dicevano che “per fare un fosso ci vogliono due sponde”. Può sembrare un’osservazione apparentemente lapalissiana, ma, in verità, esprime ciò che, in geometria, s’intende con la definizione di “punto”: il punto non esiste in sé, non galleggia nell’aria, ma dipende dall’intersezione di (almeno) due linee. D’altra parte, basta pensare al nostro concepimento (quando diventammo una cellula solo in virtù dell’incontro di due cellule) per minare alla radice l’illusoria concezione dell’individuo come realtà esistente in sé e per sé. Torniamo all’acqua e meditiamo Laozi:
L’uomo del bene supremo è come l’acqua:
l’acqua, benefica a tutti, di nulla è rivale.
Essa ha dimora nei bassifondi,
da tutti disdegnati, ed alla Via è assai vicina.
Niente al mondo è più cedevole e più debole dell’acqua
Ma per intaccare ciò che è duro e forte, niente la supera.
(Laozi, Daodejing, 78)
È noto che i taoisti coltivano l’ideale del “non-agire” (wu wei) inteso non come pura passività, ma come capacità di “vincere senza contendere” (Zhuangzi). Il saggio taoista medita le qualità dell’acqua e, su di esse, modella la propria vita. In primo luogo l’acqua si muove verso il basso: allo stesso modo il saggio non fa mostra di sé, non domina, non è preminente, ma agisce nell’ombra, si abbassa, vive umile. In secondo luogo l’acqua irrora, nutre, vivifica, ma lo fa senza volontà, pretesa e finalità; così il saggio indica, suggerisce, cura, ma lo fa senza imporre un insegnamento, con naturalezza e spontaneità, senza perseguire scopi d’ogni genere. In terzo luogo l’acqua scorre oltrepassando ogni ostacolo e, se la si contiene in un recipiente, ne assume la forma. Tale il ‘non agire’ del saggio: intenzione non intenzionale, agire non finalizzato. Il suo fare è senza fare, efficace senza forzature. La via del “non agire” è il cammino dell’eternità.
Il carattere Yong, Eternità, Per Sempre, Permanente, è composto da un “punto” al di sopra del carattere Shui Acqua. Quel punto indica una piccola goccia che fluisce nel grande fiume, nell’eterno ciclo dell’acqua. È stato scritto che “nella filosofia taoista, laddove l’unica cosa che non muta è il Mutamento, non sono la solidità della terra, l’antichità delle montagne, l’incorruttibilità dell’oro o del diamante a dare un senso di durevolezza e di eternità, ma ciò che perde la propria piccola identità per dissolversi in un flusso più grande”. Yong suggerisce che l’eternità, la vera permanenza nell’universo impermanente, riposa nel dissolvimento del nostro minuscolo “io” nel Tutto.
Prof. Luigi Lanzi