All’ombra di un pero. Un rito per chi non c’è più

Oggi con mia madre ho piantato un pero nel nostro giardino, nella casa che abbiamo in montagna. Non era forse il momento migliore: il vento tirava forte ed era ormai pomeriggio inoltrato quando prendemmo in mano la vanga, ma né io né la mamma siamo esperte giardiniere e comunque era da tanto che ci prefiggevamo di farlo; così, rimboccate le maniche ci siamo messe al lavoro. C’è in realtà un motivo più profondo, un pensiero in parte sotterrato tra le radici del pero.

Tempo fa una mia amica “grande” (dico sempre così invece che adulta, aggettivo di significato forse più immediato ma in parte selettivo e limitante) mi raccontò che aveva portato il suo melograno nel giardino della nuova casa dove da poco si era trasferita – dalla bassa parmense all’appennino. Quel melograno aveva per lei un’importante significato: l’aveva piantato anni prima quando la madre era morta, lasciandole un vuoto e la sensazione di avere improvvisamente perso la terra salda sotto i piedi, che  fino ad allora l’aveva accolta e sorretta. L’albero in parte riempiva quel vuoto: non solo rievocava il ricordo della madre, ma era come se nel suo fusto legnoso conservasse l’amata presenza di lei ancora vivente, e che da allora segue il naturale svolgersi delle stagioni, così come quel nuovo corpo si trova ad affrontarle. Dal sonno invernale alla rinascita primaverile, l’albero ritorna fiducioso ogni anno, così come chi, fiducioso, accoglie i suoi frutti e la sua bellezza. Il senso di vuoto per quella perdita trova appagamento in questa fiducia e presenza.

A riguardo una scrittrice e analista, Clarissa Pinkola Estés, scrive nel suo libro “Il giardiniere dell’anima” di come abbia pensato di creare una “preghiera vivente”: in onore dei suoi cari morti che tanto le hanno trasmesso e insegnato, coltiva un piccolo podere nel giardino della sua casa di città. Inizialmente era un piccolo fazzoletto di verde: l’erba tagliuzzata e perfetta come in molti altri giardini urbani. Lei però, forte della volontà di ridare nuova vita a un terreno in apparenza improduttivo, scavò e spalò la terra come gli anziani di famiglia le avevano insegnato, e la lasciò così rivoltata: non piantò nulla ma attese che i semi portati dal vento o da qualche animaletto distratto si depositassero, come sempre naturalmente fanno, là dove la terra è più vuota. Dopo due anni di fiduciosa attesa il “miracolo della fede” diede i suoi frutti: comparvero i primi germogli e piccoli alberelli; l’anno successivo, quel piccolo bosco a misura di folletto divenne un giardino un po’ selvaggio, numerosi alberi erano cresciuti – frassini, lauri, acacie – e fremeva tutto di rumori e di vita perché popolato da insetti, uccelli e altri piccoli animali.

Finito il libro di Clarissa, pensai anche io di creare la mia preghiera vivente. Da quando è morto ho sempre sentito molto l’assenza di mio nonno materno. Venne a mancare circa tre anni fa, e inizialmente pensai a tanti espedienti per riportarlo accanto a me. Questa esigenza di rimediare in un qualche modo, si è poi affievolita nel tempo, trasformandosi più in un sentimento di mancanza, che solo ogni tanto mi pungeva un po’ il naso quando ci pensavo. Ma la storia del melograno e del giardino brulicante di vita, mi hanno convinta a provare anche io, così ne ho parlato in casa e il primo del mese siamo andati al vivaio: lo stesso dove da piccola andavo a prendere i fiori con mia nonna, e gli “aromi”, come chiama lei le piante aromatiche, e dove un giorno ci accompagnò anche mio nonno, che scelse invece un alberello con un unico grosso limone giallo – anche se lui diceva che l’avevano attaccato al ramo i giardinieri per farlo ben figurare.
Fu la mamma a scegliere il pero, ricordando che di pere andava ghiotto e quindi, chissà, probabilmente anche lui se avesse potuto avrebbe scelto quello.
Arrivate a casa iniziò il piccolo rito. Lei con la vanga fece una buca e quando poi ve lo mettemmo ci colpì vedere quell’alberello alzarsi al vento, quasi volesse dare esempio, o forse ricordarci solo di non stare gobbe e drizzare la schiena. Mentre chiudevo il cancello ho sentito che quel dolore che inizialmente ci aveva bloccato, assumeva ora una forma nuova: non faceva più tanta paura né tanto male pensarci, e già mi figuravo l’albero crescere in sintonia con le stagioni, e spogliarsi delle sue foglie, imbiancarsi, fiorire, come adesso, e darci in estate tante belle pere zuccherine.

Ma come si può trasformare un evento tragico, per quanto naturale, in qualcosa di accettabile, anzi accoglibile? Lì nel mio giardino ho sperimentato di come una serie di gesti rituali sottraggano il dolore dalla dimensione difficile, che spesso rende le cose indicibili. Per rito non intendo solo una consuetudine o ricorrenza, ma azioni e parole arricchite di un significato personale che renda possibile il legame tra quelle nostre parti sconnesse.
Con questa pandemia in corso, per quanti che sono stati i morti, non abbiamo avuto modo di pensarli e di piangerli, o di condividere il dolore, anche se questa è una necessità universale che l’uomo ha da sempre manifestato, portandola a compimento con le storie, il mito e la religione.

Margherita Buratti Zanchi

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