Il burattinaio. Parte uno

I bambini scorrazzavano per il cortile assolato, altri erano semplicemente seduti a terra, in cerchio, a ridere e scherzare. Diversi si portavano dietro una bambola, un peluche, qualche altro giocattolo, stretto in un abbraccio amorevole e protettivo, le scarpe slacciate, i capelli arruffati, i calzini spaiati. Braccia esili slanciate verso il cielo, sorrisi smaglianti ed innocenti, le piccole marachelle e le ginocchia sbucciate, ogni tanto un limpido grido di spavento per l’ennesima ape in avanscoperta, alla ricerca di fiori e boccioli.

Ma in uno di questi circoli, tracciati coi gessi o con vecchi pezzi di coccio, sedeva un bimbo che se ne stava in disparte, o meglio, nonostante il gran vociare intorno a lui e i rari tentativi di inclusione, rimaneva in silenzio, con le spalle curve e la testa abbassata, ogni tanto osservava un punto lontano, fisso in un luogo indefinibile. Uno sguardo intenso. Fino a dove poteva arrivare? Probabilmente in qualche posto che solo lui era in grado di vedere, ignoto, nascosto, misterioso.

Si teneva stretto il suo tesoro, di cui essere gelosi e possessivi. Ma se gli altri bambini trattavano affettuosamente i ‘preziosi cimeli’, non si poteva dire lo stesso per lui: stringeva spasmodicamente una marionetta, smaltata con colori lucidi e brillanti, un cappello a tricorno cremisi e una casacca verde, con i bottoni e le pieghe dorate,  il fodero di uno spadino sul fianco. Le mani, artigliate a quel pezzo di legno, avevano le nocche bianche per lo sforzo, le dita contratte, le braccia in tensione, ma soprattutto quel modo di tenersela lontana dal petto, quasi fosse un animale che cerca di graffiare ma non deve scappare via.

La campanella suonò, i bambini iniziarono a tornare in classe, lui rimase uno degli ultimi. Si guardò intorno e poi, con una lentezza che sembrava infinita, iniziò a tirarsi su, allentando la presa sul burattino. Lo guardò indeciso, la voglia di scagliarlo via era forte, le mani lottavano per schiudersi e semplicemente lasciarlo cadere lì, dove forse qualcuno lo avrebbe raccolto;  infine, come ogni giorno, si incamminò, trascinando la marionetta per un braccio, le gambe di legno che graffiano il suolo, lasciando due sottili solchi nella polvere.

solchi

A volte Jack arrivava a scuola con un occhio tumefatto o un labbro spaccato, i bambini e le altre persone che incontrava lo fissavano, ma nessuno diceva mai niente, probabilmente perché ormai la faccenda era diventata di dominio pubblico. Alcuni non avevano la possibilità di rimediare e aiutarlo, molti non ne avevano la voglia. Inoltre girava voce che la madre gli tenesse apposta un lungo ciuffo di capelli biondi che gli copriva metà della faccia proprio per nascondere lividi e tagli.

Che ovviamente lei gli procurava.

 

Ogni pomeriggio una piccola folla di ragazzini si radunava davanti alla casa di Jack, spinti dalla curiosità o dalla noia. I più svegli si portavano un pallone o una corda da saltare, per dare meno nell’occhio, molti altri si mettevano semplicemente ad andare avanti e indietro per la strada, con lo sguardo vigile orientato alla porta. Tutti i genitori erano d’accordo sul fatto che questa abitudine dei loro figli non fosse indicata né positiva, ma la verità era che ognuno la sera stessa avrebbe interrogato il proprio pargolo su quello che fosse o non fosse successo, decisi come tutti a ricavare anche solo il minimo dettaglio.

I più determinati restavano anche fino al calare del buio, ignorando i richiami dei vicini e l’abbaiare dei cani, decisi a scovare qualche nuova informazione interessante o sperando di vedere qualcuno uscire sulla veranda, madre o figlio. Vivevano loro due soli e si diceva che fosse il padre del bambino a spedire loro un assegno mensile, dato che la donna non lasciava mai l’abitazione, né per lavorare né per fare la spesa o altre commissioni.

Era infatti una donna straniera, che parlava male la lingua del posto, che da ormai diversi anni aiutava quella striminzita famiglia, consegnando loro i panni puliti o altre cose di quel genere. Inizialmente si faceva pagare per le consegne, poi, quando la crisi si fece sentire in modo più forte e costante, probabilmente smossa dall’affetto o dalla pietà che provava per quel bambino, continuò a lavorare per loro senza chiedere nulla, facendosi pagare solo per il prezzo di ciò che aveva acquistato.

Alcuni a volte cercavano di avvicinarla per estorcerle qualche confessione, ma ormai accadeva solo di rado, come se su di lei fosse calata una spessa campana di vetro.

Visto che la situazione aveva raggiunto un certo equilibrio, nessuno aveva più il coraggio di muovere un passo, conscio di quanto in realtà esso fosse precario, che anche solo il più debole soffio di vento avrebbe potuto spezzarlo.

 

Un giorno la maestra di arte chiese ai bambini di disegnare un oggetto o un paesaggio a piacere, anche solo immaginandoselo, con una settimana di tempo. Consegnò loro dei fogli bianchi, di quelli spessi e ruvidi, mise a disposizioni delle matite colorate, tutto l’occorrente.

Ora, non sappiamo se avesse scelto questa consegna perché grande amante della creatività o per l’enorme difficoltà di cercare un soggetto semplice ma non banale, fatto sta che un bambino con un lungo ciuffo di capelli biondi che gli ricadeva sul viso non apprezzò questo compito.

Dopo sette giorni si presentò a scuola con un foglio in bianco, unico in mezzo a tanti altri pieni di sogni e colori. Gli dovettero spiegare, molto gentilmente, che questo foglio tutto bianco non poteva essere considerato un’opzione accettabile. Così, il giorno seguente, si presentò a scuola con lo stesso foglio. Tutto colorato di nero.

Jack entrò nella sua camera in penombra, strisciando i piedi. Lasciò cadere lo zaino, un braccio e la testa della marionetta che sbucavano dalla cerniera. Subito si pentì di quel gesto: la mamma stava dormendo, la sera prima aveva sbattuto la testa contro il muro troppo forte, aveva avuto così paura…

Tirò fuori il burattino, andò a sbirciare dalla porta. Non si era svegliata, fortunatamente.

Si lasciò cadere sulla sua sedia girevole, i piedi penzolavano da una parte, il braccio della marionetta dall’altro. Si trovò a fissare l’armadio bianco, nell’angolo, le persiane delle ante erano socchiuse. Era da tanto tempo che non veniva aperto, dentro erano rinchiusi i vecchi giocattoli, la mazza da baseball, le macchinine, gli adesivi mai aperti per la bicicletta, quelli a forma di fiamma, da applicare al telaio. Ma non solo.

Un passo dopo l’altro, le gambe sempre più pesanti ed intorpidite, il burattino finalmente abbandonato indietro, in una posa innaturale e scomposta.

Con un cigolio aprì l’anta… decine di facce di legno, vuote, senza espressione, lo fissavano dalle mensole, i corpi dritti o storti, rovesciati, ammassati lì dentro.

Si voltò e scappò fuori, inciampando, agguantando al volo la marionetta con il tricorno e la casacca, nel giardino, in strada. Nella casa ormai vuota risuonò solo un debole: “Jack, sei tu?” e poi il silenzio.

Gli occhi della donna scrutarono il mondo al di fuori di quelle quattro mura, che non visitava da così tanto tempo… poi però si rigirò, riabbassò il capo sul cuscino, con le membra che urlavano doloranti.
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Beatrice de Waal, 2^D  (Parte 1 di 3)

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