Tra chimica e letteratura: Il sistema periodico

Il sistema periodico di Primo Levi è un’opera geniale.

Non è solo una semplice auto-biografia dell’autore, chimico, scrittore e partigiano ebreo, ma “la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie”. Il genio di Levi spicca nell’associazione di ogni racconto, ognuno dei quali raccoglie un frammento della sua esperienza, ad un elemento chimico. La relazione tal volta è palese, tal volta è velata, tal volta sembra di comprenderla con facilità, ma il messaggio è ben più profondo e nascosto di quanto appaia, “così avviene che ogni elemento dica qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa)”.

I temi trattati sono innumerevoli e vanno dalla dittatura alla libertà, dall’amore al lavoro, dalla svogliatezza alla dedizione, dalle atrocità e dai crimini commessi dagli uomini alla loro ipocrisia.

E’ un libro che parla dell’uomo e ne racconta le stranezze, le ipocrisie, le genialità, i crimini. E’ un’opera completa e sorprendente.

 

Dopo la lettura de Il sistema periodico gli studenti della classe 4^E hanno scritto dei racconti reali o fantasiosi ispirati ad esso. Di seguito ne sono presentati alcuni.

 

FERRO

I Bonciai erano, agli occhi di tutti, la famiglia perfetta, avevano una casa rispettabile, una buona reputazione in città e, da poco, un bellissimo figlio. Ogni vicino di casa che avevano avuto giurava di non aver mai sentito un litigio, mai una porta sbattuta, mai un pianto del fanciullo. L’unica cosa che mancava (come alla maggior parte degli abitanti di Predazzo) erano i soldi.

Il padre, Mario, il Màh per gli amici, era un fabbro e la maggior parte dei suoi introiti provenivano dalle tasche degli abitanti di Predazzo e stretti dintorni. Di italiano sapeva poco e quel poco che sapeva, oltre alle basi, erano parolacce e bestemmie; la sua lingua madre era il ladino. Erano rari gli ordini al di fuori di quei confini, ancor più rari quelli dal resto del Trentino e quelli fuori dalla regione, erano praticamente delle utopie. Negli ultimi tre anni ne aveva ricevuti solo tre, due da una coppia di anziani tedeschi, che si erano fatti fare una targhetta per i 60 anni di matrimonio, e uno dai miei genitori.

Scoprimmo i Bonciai per caso, passando per Predazzo in cerca di un coltello da cucina che, nella casa di montagna affittata per quell’estate, mancava. Entrando nella bottega rimanemmo stupiti dalla quantità di oggetti che stava fabbricando nello stesso momento; le fucine in funzione erano due, sull’incudine vi era poggiata quella che somigliava ad un puntale, la saldatrice era accesa e lui (il Màh) aveva in mano le tenaglie e un martello. Ci mettemmo poco a capire che era tutto interamente gestito da lui. Quel giorno prendemmo il coltello, e poi andammo via.

Devo essere sincero, passata una settimana di vacanza, non credevo l’avrei più rivisto.

La vacanza finì, e tornammo a Torino dove io iniziai la seconda superiore e venni promosso con il minimo dei voti, solo in italiano ero riuscito a racimolare un sette.

Arrivata l’estate, affittammo la stessa casa dell’anno prima, quella in Trentino. Dopo esserci sistemati e riposati per qualche giorno, decidemmo di fare un giro per Predazzo. Il ricordo di quella stretta via, poco illuminata, che terminava con la bottega dei Bonciai, resuscitò nella mia testa e mi generò una strana sensazione, il timore di percorrere quel vicolo si mischiava, come acqua e vino, con l’incredibile desiderio di tornare dentro a un semplice luogo, ma che tanto mi aveva affascinato.

La mia richiesta fu esaudita e, per le sei del pomeriggio, entrammo nella bottega e ad accoglierci non c’era più il Màh, ma un ragazzo. Aveva il volto tutto sporco, del resto si vedeva poco; guanti in pelle, scarponi e una lunga tuta lo coprivano dalla testa ai piedi. L’età era riconoscibile solamente dai capelli (anch’essi molto sporchi), sparpagliati per la parte superiore della testa e leggermente sfumati nelle parti inferiori; questi piccoli indizi mi facevano pensare che potesse avere la mia età. Al nostro ingresso si presentò prima ai miei genitori, poi a me. Paolo era il suo nome e, come avevo supposto, anche lui avrebbe frequentato la terza superiore.

Subito dopo si presentò il papà che ci riconobbe subito; <<Oah, I torenes!>> fu la prima parola che ci rivolse. Ma la conversazione non fu così divertente: bastarono due frasi per venire a conoscenza della morte della mamma. Aveva avuto un infarto durante una camminata e non riuscirono a portarla in tempo all’ospedale di Trento. Paolo non aveva parlato a nessuno per una settimana e ogni giorno visitava il piccolo cimitero in cui era stata seppellita.

Queste cose io le scoprii in macchina mentre tornavamo a casa, raccontate dai miei genitori; alla bottega ero andato con Paolo a giocare sul retro. Era chiaro che avesse pochi amici, ma ciò che era ancora più chiaro, era che ne volesse uno. In me aveva trovato la persona perfetta, non ero come gli altri suoi compagni di classe che lo prendevano in giro perché ogni giorno doveva prendersi una bustina di Ferro Fumarato, se no stava male. A dire la verità, non sapevo perché la prendesse (e non lo sapeva neanche lui. Il medico glielo aveva detto e lui ubbidiva) e dunque non avevo nulla da rinfacciargli.

Quel giorno mi regalò un piccolo gancetto di ferro a cui legò una corda e che mi appese al collo così che io non mi potessi scordare mai di lui, e che mi sarei ricordato di passare le estati successive.

Passate diverse estati, tutte trascorse a Predazzo, Paolo riuscì a mettere da parte, con il padre, abbastanza soldi, da poter venire all’università di Torino.

Ogni giorno andavamo e tornavamo insieme dall’università e nei weekend andavamo a Predazzo a salire su e giù per le montagne. Lui mi raccontava sempre che il suo sogno era l’America. Lo era perché, in un foglietto caduto dalla borsa di un turista a Torino, era presente l’immagine di una grande vallata circondata da montagne rosse che successivamente scoprimmo essere lo Zion Park, in Utah.

Lo tirò talmente tanto avanti, che quel sogno, divenne anche mio. Era un’utopia, ma dalla sera in cui lo scoprimmo, ci mettemmo a lavorare ogni giorno, dopo l’università, per racimolare il minimo indispensabile per visitare quella piccola parte di America. Furono due anni duri, a metà del primo infatti, Mario ebbe lo stesso problema della moglie e morì. Il mese seguente, siamo stati sul punto di mollare tutto, ma la cartolina, sempre appesa nella camera che condividevamo e la mia collana (segno della nostra amicizia), ci diedero la forza di continuare.

Al terzo anno di università avevamo abbastanza soldi, ovviamente sommati ad un oneroso regalo da parte della mia famiglia, per intraprendere questo viaggio.

Il 7 luglio dell’estate del terzo anno di università salimmo su un aereo diretto a San Francisco. Visitammo la città in due giorni e poi partimmo alla volta dello Utah.

Il viaggio fu lungo, ma ancora più lungo (e quasi terrificante) fu il silenzio che lo accompagnò. Non avevo mai visto una persona così in ansia e mai avrei pensato di vederla.

Lo spettacolo che ci accolse all’arrivo fu indescrivibile, una vallata circondata da montagne rosso fuoco che con il tramonto sembravano bruciare; il campeggio era sotto a una parete di roccia che, forse stremati dal viaggio, sentivamo sussurrare; il vento vi sbatteva contro e emanava un suono di sfida verso l’uomo, sembrava avvertisse della forza della natura, che non poteva essere sconfitta.

Il risveglio del giorno dopo fu silenzioso come il viaggio di andata, una veloce colazione fu seguita dai preparativi; era il grande giorno, quel giorno avremmo scalato “le montagne rosse”.

Un piccolo bus ci portò alla base di una grande montagna; un ranger ci accompagnò dietro ad essa e poi ci lascio lì, pronti per iniziare. Durante la piccola camminata ci spiegò che il colore rosso delle montagne era dato dalla grande quantità di ferro presenti nelle rocce che, sciogliendosi, fornivano questo colore rossastro anche al fiume e quel giorno, posso garantire, l’acqua era rosso fuoco.

Iniziammo a salire, io davanti, lui dietro; le pause che facemmo per guardare il panorama furono infinite ma ne valeva la pena. In due ore eravamo su, era circa mezzogiorno e il sole scaldava il ferro già da un po ‘.

Fu tutto così improvviso, Paolo si accasciò per terra e iniziò a tossire, sempre più forte. Non ricordo molto, solo di essergli stato abbracciato per tutto il tempo. Il mio più grande amico mi lasciò lì.

Scoprii appena tornato a Torino che la bustina di Ferro che prendeva da piccolo era per evitare un anemia. I miei genitori lo sapevano ed è per questo che avevano contribuito tanto a fargli visitare, almeno una volta, questo magnifico posto.

Giacomo Cagol

 

FERRO

Nella quiete dell’inverno, mentre i raggi del sole lottano per fendere le dense nubi, un freddo penetrante avvolge il mondo, abbracciando ogni elemento con il suo tocco gelido. In questo paesaggio sospeso tra il sonno e la veglia, una giovane anima si avventura nel labirinto dei suoi pensieri più profondi. Il suo nome è Emma, una ragazza di diciassette anni, in un’età in cui il cuore è avvolto dalla bruma dell’incertezza e l’animo brilla di promesse incantate.

Emma si considera una viaggiatrice solitaria, un’anima errante nel vasto oceano dell’esistenza umana. I suoi occhi custodiscono una fiamma ardente, che alimenta la sua curiosità e il desiderio insaziabile di scoprire i segreti che si celano nell’animo umano. Ma è attraverso l’elemento del ferro che il suo viaggio prende vita, come un filo sottile che si intreccia con le sfumature della sua essenza.

Il ferro, con la sua presenza imperturbabile e la sua forza silenziosa, diventa un compagno discreto che si fonde con il suo io interiore. È un elemento che plasma le fondamenta del suo essere, come il telaio di una costruzione maestosa, solido e inossidabile. Ogni fibra del suo essere, ogni battito del suo cuore, è intrecciato con le sfumature di grigio e la solidità imperturbabile del ferro.

Attraverso la sua intima relazione con il ferro, Emma si inoltra in un viaggio introspettivo alla ricerca della sua essenza più profonda. La sua anima è un amalgama di emozioni, un magma ardente che fluisce tra momenti di gioia e di tristezza, di luce e di ombra. Come il ferro, è stata forgiata nelle fiamme ardenti del tempo, modellata dalle esperienze che hanno segnato il suo cammino e l’hanno trasformata in ciò che è oggi. Ogni curva della sua esistenza, è un richiamo alla sua unicità e alla sua vulnerabilità.

Spesso, Emma si ritrova immersa nella solitudine del suo mondo interiore, come un’isola circondata da un mare tumultuoso di pensieri. È in queste profondità insondabili che il ferro si fa sentire, come un richiamo silenzioso a perseverare, a rimanere saldi, anche quando tutto sembra sfaldarsi intorno a noi. È il ferro che le offre sostegno nei momenti di incertezza, che le ricorda la sua innata resilienza e le invita a stringere i denti di fronte alle sfide impreviste che la vita le presenta.

Ma il ferro non è solo sinonimo di solidità e forza, è anche una danza di contrasti e dualità. È l’elemento che abbraccia in sé le tenebre e la luce, il freddo e il caldo, la rigidezza e la flessibilità. Come l’animo di Emma, il ferro si plasma e si adatta alle circostanze, acquisendo forza nel confronto con le avversità e la fragilità che attraversano il suo cammino. La sua duttilità diventa un faro di ispirazione, che spinge Emma a sfidare i confini, a superare i limiti che la vita le impone, a sperimentare la libertà dell’espressione e dell’autenticità.

Emma si considera un’artigiana dell’anima, una sorta di incantatrice di parole che cerca di intessere fili di significato nel tessuto delle sue emozioni più profonde. E il ferro, fedele compagno di viaggio, la accompagna in questo cammino, come un complice silenzioso che si fonde con le sue parole e le rende vive. È come un inchiostro speciale, che lascia tracce profonde e indelebili sulle pagine del tempo, svelando la complessità della sua esperienza e delle sue riflessioni più intime.

Attraverso la forza e la resistenza del ferro, Emma si nutre di storie e di personaggi che prendono vita nella sua immaginazione fervida. Il ferro, come un’ispirazione silenziosa, la spinge a scavare sempre più in profondità nei meandri dell’esistenza, a cogliere le sfumature più sottili che si celano tra le pieghe della realtà, a far emergere le meraviglie che si nascondono dietro il velo dell’apparenza.

Così, mentre il tempo scorre inesorabile come un fiume senza fine, Emma si impegna a seguire il richiamo del ferro, a danzare tra le sue sfumature mutevoli, a esplorare le profondità della sua anima in un costante atto di scoperta. Attraverso il suo intreccio di forza e delicatezza, si impegna a donare al mondo le parole che si agitano dentro di lei, a condividere i battiti del suo cuore e le vibrazioni della sua anima. E con il ferro come suo eterno compagno, continuerà a sognare, a vibrare e a diffondere la sua luce unica e irripetibile nel vasto panorama dell’esistenza.

Emma Bussi

 

TITANIO

Il silenzio della notte era rotto dallo squittio della civetta e per Marco quella era un’altra serata passata nella solitudine. Ormai erano più di quindici anni che viveva in quella casa di tronchi e rami di larici e abeti che aveva tagliato lui stesso con le sue mani. Per lui era impossibile scordarsi ogni secondo vissuto durante quell’incidente che per sempre segnò la sua vita. Aveva deciso che avrebbe dovuto continuare a vivere solo, senza nessuno, con le sue uniche forze, e per questo si ritirò nei silenziosi boschi delle alte Alpi, dove chi voleva raggiungere quelle terre avrebbe prima dovuto affrontare un lungo e complicato viaggio, dal quale, se non volevi rischiare la vita, era meglio starne lontani.
Marco era nato tra quelle montagne e in quei territori era cresciuto assieme a sua madre e suo fratello. Fin da piccolo fu costretto a lavorare insieme al fratello al mulino di famiglia per portare avanti l’attività con lo zio. Le sue giornate le passava principalmente lì, a chiudere i sacchi di farina che ogni giorno venivano portati casa per casa nei vari paesi intorno a lui. Si trattavano di giornate difficili, lunghe e monotone, sicuramente non adatte ai ritmi di un ragazzo ancora adolescente. L’inverno era difficile a causa del freddo pungente e il mulino spesso smetteva di funzionare per il ghiaccio. Per questo, durante i primi mesi dell’anno, Marco andava in paese e faceva dei lavori per chi ne aveva bisogno. Grazie a degli sci che si era costruito da solo spesso riusciva a fare il tragitto da casa al paese molto velocemente. A diciotto anni trovò finalmente un posto di lavoro in un’azienda siderurgica, la Falck. Si trattava di un lavoro difficile e pericoloso e al quale doveva dedicare gran parte delle sue giornate. Era evidente che non avrebbe continuato per molto: non era questo quello che lui voleva fare.
Da quando era bambino si divertiva ad andare in montagna a camminare per ore, costruire ripari oppure cercare di avvistare animali. La sua curiosità era tanta, ma da quando cominciò a fare l’operaio solo la domenica riusciva a dedicarsi completamente alle sue amate montagne. Quando partiva, i suoi occhi, profondi e penetranti, erano fissi sulle cime. Aveva sempre sognato di conquistare quelle vette, di assaporare la sensazione di vittoria e di vedere il mondo da un punto di vista sempre più alto. Una domenica di quel lontano 1948, sulle prealpi lombarde avvenne un incontro che per sempre cambiò la sua vita. Il sole ardeva alto nel cielo e ormai erano più di due ore che Marco camminava per dei sentieri chiusi da una vegetazione fitta come nebbia in autunno. Seguendo, secondo lui, le orme di un orso si spaventò al sentire dei rumori provenienti da una parete rocciosa a pochi metri da lui: erano scalatori. Incuriosito da quello che stavano facendo, si avvicinò a quei ragazzi che a fatica trovavano gli appigli per salire. Aveva uno sguardo perplesso vedendo per la prima volta quell’ammasso di chiodi e corde di canapa, ma questo non lo fermò dal chiedere senza esitare di provare anche lui ad arrampicare. La guida alpina, vedendolo nella sua sicurezza, accettò e dopo pochi minuti Marco era già imbragato. La guida diede al giovane delle indicazioni iniziali, ma, appena dato il via, senza alcuna fatica, Marco agilmente trovò la via corretta, scaldando quella parete come un esperto. La sensazione di sollevare il peso del proprio corpo verso l’alto era per lui incredibile e ogni conquista di un piccolo passo lo riempiva di soddisfazione.
Quel primo giorno di arrampicata si trasformò in una passione che avrebbe segnato il destino di Marco per sempre. Dopo aver superato quella prima via, voleva fare di più. In fretta imparò a fare i principali nodi e a forgiare i chiodi da solo da scarti di ferro che trovava. La sua forza e la sua resistenza aumentavano rapidamente e lui si sentiva sempre più al sicuro scalando quelle dure pareti verticali. La sua passione lo spinse a cominciare a breve la carriera da scalatore.
Nel 1949 decise di partire per la sua prima grande arrampicata, la via di Cassin sulla parete nord del Grandes Jorasses e l’anno successivo tentò l’impresa: aprire la via del Grand Capucin sulla parete est del Monte Bianco. Fallì due volte a causa delle condizioni climatiche estreme. Nel 1951 ci riprovò, tornò su quella parete di granito rosso che tanto lo aveva fatto soffrire l’anno precedente e stavolta ci riuscì: aveva aperto la sua prima via. Le imprese continuarono e le scalate si facevano sempre più complesse. Per diversi anni si concentrò principalmente sulle montagne del massiccio del Monte Bianco. Era affascinato da quelle cime e ancor di più lo emozionava il pensiero di essere il primo essere umano a toccare quelle pareti per la prima volta. Il nome di quel ragazzo e le imprese che aveva compiuto in così pochi anni si diffusero rapidamente fino a quel 1954, anno in cui Marco riceve una importante proposta. Ardito Desio, esploratore e geologo, vedeva in lui un talento utile e necessario al compimento della sua più grande spedizione: la conquista del K2.
L’organizzazione durò diverse settimane e alla fine si arrivò al giorno della partenza. Con un aereo da Roma atterrarono nelle lande dell’Himalaya e lì fu creato il campo base che avrebbe seguito tutta la spedizione. In tutto erano tredici gli alpinisti italiani scelti. La spedizione era divisa per campi e per arrivare alla cima ce ne sarebbero voluti nove. A ogni campo degli scalatori si sarebbero dovuti fermare e ad avanzare sarebbero stati sempre in meno: chi sarebbe arrivato in cima dovevano essere proprio Marco e il suo fedele compagno di scalata Luca Lacedelli. Si erano conosciuti pochi anni prima. Avevano iniziato a scalare insieme e insieme avevano concluso le prime imprese. Marco si fidava ciecamente di Luca, sapeva che se era lui a tenergli la corda durante le sue ascese poteva sentirsi al sicuro. Erano diventati come fratelli, inseparabili, sia sulle pareti sia nella vita.
Gli alpinisti partirono, ma l’ascensione del K2 si presentò come un’odissea travagliata fin dall’inizio. Il clima era estremamente instabile e le temperature glaciali rendevano il percorso sempre più pericoloso di quanto già non lo fosse. Il cielo era limpido, ma un vento gelido soffiava con violenza facendo tremare i loro corpi esausti. Dopo più di una settimana di cammino si arrivò al nono campo. Ormai era solo compito di Marco e Luca arrivare in cima e concludere la spedizione. Avevano smontato le tende in cui dormirono quella notte e ricaricarono le bombole di ossigeno per proseguire. Il meteo peggiorava sempre di più, ma, nonostante tutto, i due procedevano con determinazione, attenti a ogni passo, con la consapevolezza che non potevano sbagliare, ormai mancavano poche centinaia di metri all’arrivo, alla grande conquista. Per scalare quelle pareti di ghiaccio e roccia facevano in media sei passi al minuto. Passi corti e tranquilli. Lì, da un momento all’altro, il panico li investì immediatamente e ormai non c’era più nulla da fare. Dalla vetta della montagna una massa di neve si staccò e senza pietà cominciò a cadere sempre più forte e velocemente. Marco e Luca cercarono di scavare un rifugio nel ghiaccio con le poche forze che gli rimanevano, ma fu del tutto inutile. Furono travolti e completamente sommersi. Marco perse conoscenza e si risvegliò in un mondo grigio e silenzioso. Era sepolto sotto una coltre di neve compatta e ghiacciata, ma il suo primo pensiero fu quello di cercare Luca. Aveva come un nodo alla gola che lo spinse a scavare freneticamente nella neve, ma il suo compagno era completamente sparito. Era rimasto solo. La sfida e la conquista che avrebbe tanto voluto concludere lo aveva portato a essere completamente solo. In quel momento, dopo aver capito che il suo migliore amico e fedele compagno non sarebbe mai più tornato, Marco capì cos’era davvero la solitudine. Si sentiva come un naufrago su un’isola deserta, pervaso da una fitta tristezza e desolazione, senza speranza di soccorso. Con un enorme sforzo riuscì a trascinarsi fuori da un crepaccio e in quel punto si ristabilì un contatto radio con la base. Chiese aiuto disperatamente, ma il freddo penetrante aveva cominciato a intorpidire il suo corpo ed era sempre più difficile per lui respirare con calma. Il suo corpo cadde a terra e incosciente si addormentò su un soffice strato di
neve.
Si risvegliò giorni dopo in Italia, a casa sua, da suo fratello e sua madre. Era stato sottoposto alle cure necessarie e ormai era fuori pericolo, tuttavia non era più come prima. Era cambiato, la montagna aveva cambiato lui. Ormai non poteva più tornare alla sua vecchia vita dopo aver assaporato la solitudine e la forza della natura in modo così profondo. Seppur la missione fosse fallita, stavolta non poteva tornare a scalare, non poteva tornare su quelle cime che avevano strappato violentemente la vita al suo fedele amico.
Scelse allora di ritirarsi, di tornare tra quei boschi in cui da ragazzo si divertiva a camminare e giocare. Qui, in una capanna, lontano dalla civiltà Marco si ritirò nella sua solitudine. Viveva con poche necessità, cucinando con la legna raccolta nei boschi e mangiando quello che la natura gli offriva. I giorni si trasformarono in mesi, i mesi in anni. Lontano dalla frenesia del mondo era riuscito a trovare la pace interiore che sempre aveva cercato. Quel ragazzo che una volta aveva sognato di conquistare le vette più alte era diventato un uomo e aveva imparato a rispettare la loro forza e la loro bellezza. Solo in questo momento aveva capito che la vera conquista non è solo raggiungere la cima più alta di una montagna, ma soprattutto comprendere la grandezza delle nostre fragilità davanti sfide più grandi di noi.

Davide Corsanici

 

NEODIMIO

Nel tranquillo laboratorio di chimica della professoressa Marcellini, una mattina di primavera, risuonavano i delicati tintinnii di provette e becker di vetro. La chimica, una donna dai capelli rossi e lenti spesse, era concentrata su un misterioso elemento chimico che aveva appena isolato. Il suo nome? Neodimio.

La professoressa, con la sua fama di genio eccentrico, aveva sempre avuto una passione per la tavola periodica degli elementi. Tra tutti, il neodimio l’ha affascinata con la sua brillantezza elettronica, il suo colore argentato e la sua complessità nascosta.

Mentre lavorava con l’elemento, la chimica non poteva fare a meno di riflettere su quanto esso fosse simile all’animo umano. Così come il neodimio era raro in natura, allo stesso modo erano rari i cuori veramente nobili, ma, quando venivano scoperti, come gioielli nascosti, erano destinati a brillare con una luca unica.

Il neodimio, come molti elementi rari, aveva una dualità affascinante: da un lato poteva essere fragile e vulnerabile, fragilmente ossidabile e suscettibile agli agenti esterni; ma dall’altro, quando era adeguatamente trattato, poteva essere forte e resistente, con proprietà magnetiche che lo rendevano un elemento indispensabile in molti dispositivi tecnologici moderni.

La professoressa Marcellini iniziò ad eseguire una serie di esperimenti per svelare ulteriori segreti del neodimio. Studiò le sue reazioni con gli altri elementi, esplorando la sua chimica complessa e le sue potenziali applicazioni, finchè non si accorse che il neodimio era in grado di creare colori vivaci quando veniva combinato con altre sostanze, un po’ come le persone che diventano più luminose quando interagiscono con l’anima giusta provvista di scintilla.

La vera rivelazione arrivò quando la professoressa scoprì che il neodimio aveva anche un’incredibile capacità di accumulare energia per poi rilasciarla lentamente nel tempo, come se avesse una memoria che gli permetteva di trattenere gli eventi e le esperienze del passato e liberarli gradualmente. La professoressa aveva finalmente capito che il neodimio rappresentava un simbolo perfetto per l’essenza umana: gli umani potevano essere fragili ma anche sorprendentemente forti, potevano interagire con gli altri per creare bellezza e colore nella vita, ma soprattutto, avevano l’abilità di accumulare esperienze, conoscenze ed emozioni nel loro cuore e condividerli con il mondo quando si presentava il momento adatto, proprio come il neodimio.

Così, l’elemento meno conosciuto di tutta la chimica, divenne un simbolo per la professoressa Marcellini e per il suo lavoro: promemoria costante della bellezza e della complessità della tavola periodica e, più importante, della bellezza e della complessità degli esseri umani stessi.

Maddalena Alberani

 

IDROGENO

Da bambino ho avuto diverse passioni. Ricordo che quando mi si chiedeva che lavoro volessi fare da grande rispondevo “Il pompiere”, “L’architetto”, “Il paleontologo”. Cambiavo spesso idea, a seconda di ciò che leggevo, che guardavo in televisione o che sentivo dire dagli adulti, spinto da quell’irrefrenabile curiosità che hanno tutti i bambini. Ma, fra le passioni più disparate, l’unica che davvero mi ha accompagnato fino ad oggi è quella per lo spazio: uno dei miei grandi sogni era di diventare un astronauta. Purtroppo mi sono reso conto più tardi che, soffrendo di vertigini e temendo in particolare i vuoti d’aria, diventare un pilota e venire sparato al di fuori dell’atmosfera sulla cima di una torre alta un centinaio di metri pronta a saltare letteralmente in aria, non fosse la migliore delle opzioni.

Per fortuna l’industria spaziale non necessita solo di astronauti, ma anche di scienziati, fisici e ingegneri, di conseguenza posso ancora perseguire il sogno, nella mia mente sempre più vivido, di operare nel settore astronomico.

Nel frattempo, però, oltre a cercare, spinto dal mio orgoglio personale, di convincermi di poter comprendere come funziona l’Universo leggendo saggi di esimi scienziati decisamente oltre la mia attuale capacità di comprensione, mi accontento di osservare il cielo, lasciandomi sopraffare dalla grandezza del Cosmo.

Spesso mi reco in collina assieme a mio papà, per poter osservare meglio le stelle, altrimenti nascoste dall’inquinamento luminoso della pianura. Lui è sempre stato un amante della fotografia e mentre io mi sono sempre limitato a guardare verso l’alto, ammirato, lui montava la macchina fotografica sul cavalletto per poter immortalare quello spettacolo e pian piano mi ha trasmesso questa sua passione. Ho cominciato, quindi, a tentare qualche scatto prima alla Luna e poi alle stelle. 

Poco prima dell’inizio dell’estate, però, ha trovato, nel reparto “usato” del suo negozio fotografico di fiducia, una Canon con il sensore modificato per poter catturare una parte di radiazioni infrarosse, in particolare quelle generate dagli atomi di idrogeno delle nebulose e delle galassie, e tradurle in luce visibile nella fotografia, che in questo modo risulta più completa, vivida a luminosa rispetto ad una scattata con una macchina fotografica classica, programmata per catturare solo lo spettro di luce visibile. La gamma di colori, ovviamente più tendente al rosso, è molto più vivida e mette in risalto proprio gli ammassi stellari, le galassie, e gli ammassi gassosi, le nebulose, costituiti in gran parte proprio dall’idrogeno, l’elemento più comune e presente nell’Universo. 

Tra le varie serate passate a guardare il cielo ne ricordo in particolare una: era l’11 agosto e, come ogni anno, la Terra stava attraversando lo sciame meteorico delle Perseidi, nome tecnico e poco poetico attribuito alle stelle cadenti della notte di San Lorenzo. Mi trovavo in campeggio in montagna, in Val Venosta, impaziente di poter finalmente sfruttare al meglio il nuovo acquisto fotografando la Via Lattea, nella speranza di riuscire a vedere anche qualche meteora. Dopo aver trovato un luogo buio all’interno del campeggio e aver puntato la macchina fotografica verso Sud, dove si sarebbe dovuto trovare il centro della Galassia, mi sono sdraiato per terra, a bordo dello stradello ghiaioso, osservando il cielo verso Nord-Est, nella direzione della costellazione di Perseo, dove avrebbe dovuto esserci la maggiore concentrazione di meteore. Gli unici suoni erano le voci di mia sorella e di una ragazza conosciuta in campeggio e quello dello specchio della macchina fotografica, che ritmicamente si apriva e chiudeva per immortalare il cielo. Ma io non sentivo nulla, rapito da quelle lucine lontane che dominano il firmamento. Enormi fornaci generatrici della vita, dell’Universo e di tutto quanto. 

Potevo sentire la radiazione cosmica di fondo, che permea il Cosmo da quando è nato, da quell’oscuro avvenimento denominato “Big Bang”. Grandi scienziati hanno prodotto tesi diverse, talvolta discordanti, sull’Inizio di tutto e tuttora non si ha una risposta definitiva. La teoria più accreditata ritiene che ad un certo momento, difficile da determinare in quanto il tempo allora ancora non esisteva, secondo le folli leggi della Meccanica Quantistica sia comparsa una microparticella che, contro ogni probabilità ha cominciato ad espandersi a velocità impressionante e l’Universo ha cominciato ad esistere.

 Il seguito sembra essere meno misterioso: quell’esplosione ha scaraventato in ogni direzione particelle elementari, che hanno cominciato ad avvicinarsi ed unirsi, fino a formare l’elemento più semplice: l’idrogeno. Grazie a fluttuazioni gravitazionali casuali, grandi ammassi di questo gas hanno cominciato ad aggregarsi, formando una nebulosa, aumentando la propria massa a tal punto da aumentare la pressione e la temperatura interna, fino alla fusione degli atomi di idrogeno in atomi di elio: era nata la prima stella. Pian piano nuovi elementi hanno cominciato a formarsi. La stella col tempo si è trasformata in  una gigante rossa, poi in una nana bianca, esplodendo in una supernova, catapultando quegli elementi nell’Universo, che a loro volta hanno cominciato ad aggregarsi, formando altre nebulose, stelle, pianeti e, su alcuni di questi, la vita. 

E mentre osservavo avvenire davanti ai miei occhi ciò che avevo studiato, anche se impercettibilmente, non potevano che venirmi in mente i versi di Alan Sorrenti: “Siamo figli delle stelle”, e da esse medesime nutriti.

E mentre sullo sfondo del firmamento avveniva ciò, le protagoniste della serata erano le Perseidi, ammassi di roccia e ghiaccio sciolto dall’infrangersi con l’atmosfera. Mi è stato detto che questa descrizione rovina la magia delle stelle cadenti, davanti alle quali di solito si esprimono desideri, ma per me non c’è niente di più romantico della razionalità con cui funziona l’Universo, così tremendamente incompresa e la cui conoscenza a riguardo ancora così incompleta. E mentre guardo le stelle, quell’aspirazione a diventare qualcuno desta la mia curiosità, il mio bisogno di conoscenza, e quel sogno di riuscire, un giorno, a posizionare un nuovo tassello nella grande torre della scoperta scientifica.

Quella sera ho realizzato uno scatto di cui vado particolarmente fiero: mostra il centro della Via Lattea, con le sue mille sfumature, davanti alla quale passa una cometa. Un pezzo di roccia e ghiaccio. Un desiderio.

Federico Notari

 

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