Carnea, minuta creatura, procreata dal bisogno corrisposto di baci dolenti. Ultimo legame rimasto, inviolato, dell’amore rinnegato di due corpi ormai sconosciuti, che urlano e si guardano senza riconoscersi più.
Ho conosciuto l’amore vedendolo sgorgare nei pianti disillusi di quei corpi; scappava, martire e colpevole della loro complicità perduta.
Se è nell’umido mescolarsi scomposto di lingue bagnate, se è nel bacio che si cela quel filo di seta che ricuce le ferite del mondo, come si può biasimare l’immaturo nichilismo di una creatura che assiste bambina al rinnegarsi dell’amore.
Due mani tendevano vigili la fune su cui dondolavo, scalza circense; una ha mollato la presa. Nessuna rete sottostava, nessun cuscino. Nessun rapporto stilato sull’avvenimento, nessun luogo in cui cercare spiegazioni. Nessuna parola, nessuna conferma o negazione. Solo fragili bende sulle mie fresche ferite, solo fasciature che bloccassero il sangue del loro sangue, che tenessero dentro tutto perché nulla uscisse fuori.
Confusa da quel cieco e inspiegato dolore, giacevo inerme sul terreno, luogo sconosciuto alla mia vista, sempre proiettata, fino ad allora, verso quell’orizzonte accessibile solo dall’alto della fune. Gravava sulle mie ossa il peso violento dell’impatto; una fossa delineava i contorni del mio corpo, la terra mi avvolgeva, come la carcassa di una bestiola sull’orlo della decomposizione. Sentivo i vermi, affamati, strisciare in verticale sul ventre e sulla schiena, invadere avidi gli strappi lacerati che portavo, ingordi di dolore, posseduti dalla brama di una sofferenza innocente. Impotente davanti a tanta fame, davanti a tanto fermento, ho concesso loro di consumarmi, di trarre dalla mia pelle e dalle mie interiora quell’energia che non ero più in grado di manifestare. Mi sono fatta vittima della mia stessa volontà, disarmata e disarmante, concedendomi senza esitare ai sadici vermi terreni.
La luce si è lasciata penetrare dalla notte, inchinandosi al cospetto della luna, amante degli amanti, esiliata nelle tenebre dall’un tempo suo amato sole. Io, muta preda di quel tanto atteso banchetto, chiudevo e aprivo gli occhi verso il cielo, come scorrendo fotogramma per fotogramma l’interminabile protendersi del buio verso l’alba di un nuovo giorno. Il domani è giunto stanco, scoprendomi sul limitare dell’estrema unzione. I primi tiepidi raggi di luce mi accarezzavano, timidi, come un padre culla intenerito un figlio che scorge, senza capire, il mondo per la prima volta.
Il calore, che lento rianimava l’erba, mi inebriava, spolverando dal mio viso ogni sopravvissuto ricordo. La brina, che nottetempo si era posata in silenzio sul prato, in silenzio esalava verso altre terre dormienti, cercando riposo. Un’ombrosa tenebra scura, grigia e fredda come il marmo, ha preso il suo posto. Per pochi istanti si è fermata sopra al mio giaciglio, come incerta. Una lacrima mi è scivolata sul volto, ma non era mia. Mi si è concessa, quella tenebra, piangendo condoglianze sul mio pianto, onorando piovente il defunto connubio.
E quel giorno la pioggia ha lavato le ferite, e ha fatto rinascere i fiori.
Testo di Martina Alberici 5E // scirxppo
Esperimento di prosa poetica, di ispirazione ermetica e a tratti decadente.
Foto rinvenuta nell’archivio ricordi dell’infanzia.