Chandra Livia Candiani, Questo immenso non sapere, Einaudi

Abbiamo conosciuto Chandra in un pomeriggio di dicembre, tre anni fa, quando venne a Parma a presentare il suo ultimo libro. La poetessa ci ha abbracciato, autografato i libri con la sua grazia bambina, ne abbiamo un ricordo prezioso. 

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Poi c’è stata la pandemia, un malessere che le ha fatto annullare impegni e lasciare Milano per ritirarsi alle porte di un bosco, vicino ad asini amici e alberi che le lanciano rametti delicatamente, per salutarla. Se non conoscete Chandra, tutto ciò può sembrare surreale e un po’ folle. 

Ma la pratica della meraviglia che lei suggerisce ai suoi lettori prevede che si lasci andare ciò che crediamo di sapere; è questa la cura per i cuori malati. Se praticate lo stupore potreste accorgervi di avere intorno un gatto come  Zivago, dispettoso ma capace di sguardi da monaco, cerve grigie come cattedrali nel bosco, merli indiani che amano certe poesie e altre no, fringuelli che portano in dono semi rosa sul davanzale. 

L’uomo, creatura fra le creature, non è diverso da loro. Come loro soffre, cerca pace e risposte, una cura al dolore. “Gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire”; Chandra li sceglie come maestri nel suo percorso di ricerca che può essere anche il nostro, dietro ai suoi passi sottili nel bosco, attraverso la solitudine, i traumi, il tempo incerto in cui viviamo. 

Secondo il Buddismo, quattro sono gli spazi del cuore, quattro strade per entrare in territori che stentiamo a conoscere e che invece vanno abitati, tenuti in ordine: la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia per la gioia dell’altro, l’equanimità.  In questo viaggio di stupore, la poetessa suggerisce piccole tecniche di conforto: inviare pensieri buoni agli altri, a noi stessi, a chi ci ha ferito, andare a scuola di silenzio da un ciliegio, aprirci al mondo, averne cura.

Lo sapranno gli altri? Si chiede Chandra, durante il suo girovagare, dando sepoltura a un rospo schiacciato. Sente un piccolo rumore, si gira e li vede lì: “Tre rospi mi guardavano negli occhi. Uno d’oro come il fango, un altro grande e verde e uno più piccolo sopra di lui, immobile, con perle d’acqua ai lati della schiena: la magia minuta che ricuce i pezzi del cuore e lo rimette in sede.” 

Questo immenso non sapere, che è il titolo del libro, sussurra al nostro tempo così frenetico e orizzontale che quel che non sappiamo fare noi uomini lo sanno fare i rospi: fermarsi, stare in silenzio, provare compassione.

Qui Chandra a Milano alla presentazione del suo ultimo libro

Maria Borelli

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