Francesco Cibati, operatore per Linea d’ombra, ha 29 anni, lavora nel settore della comunicazione e ha studiato Design della comunicazione al Politecnico di Milano, poi marketing e comunicazione digitale a Venezia. Nel 2019 si è trasferito da Parma a Trieste per collaborare con l’associazione Linea d’Ombra, che da quello stesso anno si occupa di raccogliere fondi a sostegno dei migranti lungo la rotta balcanica e garantisce assistenza quando questi giungono a Trieste, città di confine dove l’associazione ha sede. Questo articolo segue all’incontro che ho avuto con lui.
La rotta balcanica. Si potrebbe partire dal nome che è spesso rivelatore di una realtà intrinseca meno evidente. La rotta balcanica, infatti, è così chiamata in quanto i migranti durante il loro lungo percorso – che ha origine nei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale – attraversano parte della Penisola Balcanica: dalla Grecia salgono verso la Serbia, la Bosnia, la Croazia, fino a giungere ai confini dell’Unione Europea, oltre i quali confidano in un futuro diverso.
Ma di fronte a uomini che cercano accoglienza, questi confini diventano come muri insormontabili, rafforzandosi e respingendo invece di disgregarsi.
La denominazione “rotta balcanica” è in realtà impropria: sarebbe più corretto parlare di rotta europea, includendo così nella definizione l’Europa, oggetto stesso del desiderio che ha spinto migliaia di persone a mettersi in viaggio.
Questo percorso esiste da decenni, tuttavia si iniziò a parlarne a partire dal 2015, anno di esplosione degli “attraversamenti irregolari delle frontiere”. A settembre, sulle spiagge della Turchia, venne trovato il corpo senza vita di Alan Kurdi, il bambino di tre anni di origini curdo-siriane morto mentre tentava di raggiungere la Grecia. Ci furono molti altri annegamenti quell’anno, e anche le rotte terrestri videro l’attraversamento di centinaia di migliaia di persone.
L’anno successivo, l’Europa stanziò enormi somme di denaro in accordo con la Turchia affinché questa allestisse campi profughi dove da allora restano bloccate migliaia di persone, dirette ai Paesi europei.
Lungo i confini c’è poi la polizia croata che tenta di bloccare ulteriormente il loro passaggio, riuscendovi solo in parte: è come cercare di afferrare l’acqua con le mani, o di catturare il vento: le migrazioni sorgono come risposta a un bisogno vitale di ricerca proprio di ogni essere umano.
Quando l’ingiustizia viene dall’alto e il problema permane, non si ferma a un primo strato superficiale ma tende a infiltrarsi, come la muffa nei sottotetti che a mano a mano si espande e fa marcire le pareti. È necessario allora agire su vari livelli. Le realtà “altre” che operano in questa direzione sono molte, anche se rimangono ancora poco conosciute. Francesco ci porta un’immagine di Linea d’ombra molto concreta; del resto, pur operando a Trieste, l’associazione amplia le sue attività anche oltre i confini stabiliti – dalla cartina geografica o dalle leggi – fornendo assistenza ai profughi ovunque se ne manifesti la necessità.
Pensare a Trieste come sede di un’associazione che si occupa di migranti apre a una riflessione. “Trieste è una città particolare – scrive Gian Andrea Franchi, che insieme a sua moglie Lorena Fornasir, ha fondato Linea d’ombra – più che una città di confine è una città che da cento anni ha interiorizzato il confine come ferita insanabile”. Infatti, fu proprio a Trieste che nel 1938 Mussolini proclamò le leggi razziali e la città fu sede dell’unico lager con forni crematori in Italia. Qui giungono i migranti che finiscono la rotta: in una piazza che colpisce per il suo nome – Piazza libertà – che sembra tendere all’effettiva sua realizzazione.
Dice Francesco: “Venendo a Trieste ho incontrato quello che conoscevo solo nella teoria, ho incontrato praticamente queste persone, l’incontro è stato qualcosa di molto importante perché mi è scattato qualcosa dentro, e ho iniziato a dedicarvi molto più tempo”.
L’incontro è il punto centrale delle azioni messe in campo dall’associazione. Come dice Francesco la prima cosa importante, quando arrivano in piazza, è instaurare la relazione: arrivano stremati e feriti e l’accoglienza è la risposta a uno dei loro primi bisogni.
Accogliere significa salutare, sorridere, chiamare per nome: azioni semplici di cui ciascuno può comprendere l’importanza essendo il succo di cui si nutre la nostra quotidianità, ma che in questo caso assumono un significato quasi opposto: far capire che chi incontrano ora non li farà del male, diversamente dalla maggior parte degli altri incontri che hanno avuto in precedenza.
Oltre la relazione, nel pratico, si soddisfano i vari bisogni, diversi in base alla singola situazione: mangiare, cambiarsi i vestiti, quasi sempre stracciati e pieni di pidocchi.Molti sono feriti per le bastonate della polizia sul confine o hanno i piedi piagati a causa del lungo tragitto su e giù per ripide alture con solo scarpette da training. Sono tutti bisogni che implicano un gesto di cura, e questa assume concretezza sia come assistenza medica che come gesto di rivoluzione rispetto a quel moto di repulsione e indifferenza che vediamo spesso nelle persone.
L’incontro trasformativo è qualcosa di reciproco: più immediato è forse pensare a quanto ricava il migrante – assistenza in primo luogo – meno evidente il guadagno di chi li assiste. Dice Francesco: “Ci vuole un po’ di tempo per capirlo, a quindici, sedici anni preferivo anche io far altro. Mi sono sempre occupato di servizio e volontariato, allora ragionando da solo o con gli altri, il fatto che aiutare le persone fa star bene anche te che aiuti è una cosa riconosciuta da tutti universalmente. Il senso di realizzazione coincide con la consapevolezza di riportare un po’ più di equilibrio nel mondo, di renderlo un posto migliore”.
Margherita Buratti Zanchi
murales di Banksy, apparsa su un muro a Clacton-on-Sea, nella regione dell’Essex