Stavolta non potrò ricorrere all’autorevole parere dell’Accademia della Crusca per parlarvi di un’altra parola tratta dal “vocaboletano”, un dizionario dialettale prezioso, nel quale incorro quotidianamente e per le origini di mia madre, come vi avevo già raccontato, e per i miei quotidiani banchetti alla corte di mia nonna.
Da lei ho imparato che il napoletano è una vera e propria lingua, un parlato che evoca emozioni più che concetti e, per questo, mai definitivo, mai concluso. Si evolve, si arricchisce di continuo, lasciando il passo a sfumature, interpretazioni e salti di significato.
Pucundrìa è una di quelle parole che, per i motivi di cui sopra, non trovano una traduzione letterale, anzi racchiude tutta una serie di accezioni che risultano piuttosto complesse per chi non mastica questo dialetto. La si potrebbe accostare alla italiana ipocondria ma, diversamente da questa, la pucundrìa napoletana non è la preoccupazione di ammalarsi, il convincimento di avere un male incurabile, ma è un richiamo ad una sensazione meno fisica e più spirituale.
La pucundria potrebbe definirsi una sorta di malinconia che ricorda il colore plumbeo di questo cielo di novembre o quel blu profondo del mare, un’onda che sale dalla pancia e si ferma proprio sotto il costato, restando lì pesante, senza salire né scendere.
Un groviglio di sentimenti che si attorcigliano come i fili del cotone nella scatola da sarta di mia nonna: insofferenza, solitudine, angoscia così potenti da condizionare corpo e mente. Spesso “soffrono” di pucundrìa gli emigranti costretti ad allontanarsi dalla propria casa e oppressi dalla nostalgia della propria terra. Oggi, credo ne soffrano, anche senza esserne del tutto consapevoli, quei ragazzi a cui è stato tolto un futuro sul quale scommettere perché spettatori non paganti delle decisioni degli adulti ai quali, invece, appaiono tutti ‘nzallanut. Ma questa è un’altra storia.
Simone Euripide 1T