Dopo Dublino, Londra. Dopo le competenze di cittadinanza europea, una attività di alternanza scuola-lavoro. Nel senso più letterale dell’espressione.
A conclusione dell’anno scolastico sto infatti lavorando in un meraviglioso walled garden che si trova a Londra. Più esattamente nel quartiere di Fulham, in un palazzo che dal 774 al 1973 è stato la residenza del vescovo di Londra e che nel corso dei secoli ha contribuito in modo attivo alla storia della città.
Come molti altri luoghi di interesse storico nel Regno Unito, anche Fulham Palace è gestito da una charity che riceve fondi dalla National Lottery, fa riferimento al National Trust e conta sull’aiuto di molti volontari.
Io sono uno di loro. Svolgo attività di volontariato come gardener nel giardino di Fulham Palace, quattro giorni su sette, dalle dieci alle sedici, per quattro settimane.
Come ho scoperto questo posto, decisamente off the beaten track rispetto ai tradizionali percorsi turistici e così quintessentially British da sembrare quasi fiabesco con i colori delle sue dalie e le sue mura di mattoni rossi, è meglio rimanga un segreto noto solo a pochi.
Perché il volontariato qui e d’estate, ecco, le ragioni sono tante.
Dopo tanti anni trascorsi come Pioniere della Croce Rossa, il volontariato fa parte del mio universo mentale e Londra è una città che amo, pure nella fase di Brexit.
Inoltre questo è un ottimo modo per praticare l’inglese parlato e per conoscere persone nuove, che vivono in una realtà diversa dalla mia e con cui mi piace scambiare delle idee. Nei miei viaggi ho sempre constatato che fra brave persone ci sono molte più somiglianze che differenze.
Il gardening è, invece, capitato per caso e risulta quasi ossimorico per una che come me riesce a far morire perfino le piante di menta sul balcone.
Qui ho ricevuto una accoglienza calorosa e, come mi aspettavo, un Induction Course molto meticoloso su come i volontari sono organizzati, su quali sono i comportamenti da adottare e le pratiche da seguire. Era già pronto per me un lussuoso badge con il mio nome che io appunto fieramente sulla maglietta nei giorni di lavoro.
Avevo pensato di raccogliere fiori e di tagliare qualche rametto secco, come si vede nei film. Avevo l’immagine del giardino inglese con il prato verdissimo che si coltiva da solo e produce spontaneamente fiori. L’aggettivo “bucolic” esiste anche nella lingua inglese.
Non è così. Il gardening richiede applicazione, e impegno anche fisico, e per questo mi piace ancora di più.
Edging, deadheading, digging up potatoes, weeding, potting on plants, harvesting. Queste sono le principali attività che mi vengono assegnate alla mattina dopo il briefing con il team e il Chief Gardener, Lucy Hart, sempre gentilissima e incoraggiante.
Uso gloves, secateurs, clipper, spade, shovel, bucket, wheelbarrow, fork, rake e vari altri strumenti di cui ho imparato i nomi, così come ho imparato i nomi di alcuni vegetali che da noi sono piuttosto rari. Il kale non è esattamente il cavolo cappuccio e il tarragon è invece il dragoncello.
Faccio cose così distanti dalla mia quotidianità che ogni tanto mi sorprendo a chiedermi cosa mi abbia portato alla mia età a fare questa esperienza, a mettermi in gioco per giunta in un paese straniero.
Anche i volontari sono piuttosto stupiti da una insegnante italiana di Latino, lingua nella quale sono declinati su apposite etichette i nomi di fiori e piante, che durante le sue vacanze estive fa gardening a Fulham. È uno stupore tuttavia amichevole, accogliente che non manca mai di coinvolgermi quando chiacchieriamo sotto un albero durante il pranzo. Mi fanno sentire parte del team, sebbene molti di loro si conoscano da parecchi anni.
Stessa meraviglia che sollecito nei numerosi visitatori locali. Mi vedono sudare mentre uso la vanga, leggono il nome sul badge, si fermano incuriositi, mi chiedono, rispondo sorridendo, mi sorridono a loro volta e mi ringraziano.
Altrettanto fanno con Anna Maria, la mia amica Project Leader alla Chiesi Farmaceutici che ha condiviso con me per una settimana questa avventura. Insieme abbiamo compilato l’application form lo scorso anno, inviato le references richieste e sostenuto l’interview telefonica che ci ha permesso di essere accettate.
Alla fine, deep down come direbbero qui, lo so perché ho deciso di vivere questa esperienza, quale motivazione profonda mi abbia portato qui.
Perché, come in molte altre occasioni della mia vita, il concetto “never stop exploring” credo sia l’equivalente contemporaneo del sapere umanistico a cui ho dedicato per passione gran parte dei miei studi universitari. È quello che vorrei dire anche ai nostri ragazzi.
Fate qualcosa di inaspettato ogni giorno, mettetevi alla prova senza paura di sbagliare, lasciate ogni tanto la vostra comfort zone.
La ricchezza di quello che incontrerete sarà sorprendente.
Lucetta Dodi